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Solo quando lavoro sono felice lo spettacolo che prova a smontare il mito del lavoro

Intervista. Uno spettacolo teatrale di Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa, in scena mercoledì 9 luglio alle 21.15 nel cortile del Palazzo Comunale di Bolgare, per Terre del Vescovado – Teatro Festival 2025, che indaga il legame tra lavoro e identità. Attraverso ironia e riflessione, smaschera il mito del lavoro come unica fonte di realizzazione

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Uno scena dello spettacolo «Solo quando lavoro sono felice» (Foto di Serena Pea)

Quanto spazio occupa il lavoro nelle nostre vite? È un’attività tra le altre, oppure ha finito per inglobare tutto il resto? Non si tratta più solo di guadagnarsi da vivere: il lavoro struttura la nostra identità, plasma la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. Chi siamo, quando non stiamo lavorando? E quanto ci vuole, durante una conversazione, prima che qualcuno chieda: “Tu che fai nella vita?”

Per chi è nato tra gli anni Ottanta e Novanta – una generazione cresciuta tra flessibilità forzata e Partite IVA – il confine tra lavoro e vita privata è diventato quasi impercettibile. La persona coincide con la funzione che svolge, la disponibilità è continua e la prestazione si fa stile di vita. Dopo anni di precarietà, il problema oggi non è solo quanto si lavora, ma come e perché.

Da questo contesto nasce «Solo quando lavoro sono felice (una conversazione sulla disperazione)», il primo progetto teatrale condiviso da Lorenzo Maragoni e Niccolò Fettarappa, in scena mercoledì 9 luglio alle 21.15 nel cortile del Palazzo Comunale di Bolgare, per Terre del Vescovado – Teatro Festival 2025.

Una drammaturgia a due voci che mescola poesia, teatro civile e disincanto generazionale per mettere a nudo un paradosso: il lavoro, da strumento di emancipazione, è diventato oggetto di desiderio. E nonostante ci renda esausti, continuiamo a inseguirlo.

Maragoni e Fettarappa – entrambi nati negli anni Novanta, incontratisi nel 2021 alla scuola «scritture» diretta da Lucia Calamaro – costruiscono una partitura scenica in cui ci si arrabbia, si ride e soprattutto si mette in discussione la normalità di un sistema che ci chiede di essere produttivi anche quando ci sentiamo vuoti.

«Solo quando lavoro sono felice» non è solo un titolo provocatorio, è il punto di partenza per un’indagine lucida, ironica e impietosa sul rapporto tra lavoro e identità nelle società occidentali contemporanee. Uno spettacolo che si interroga su come il linguaggio neoliberale abbia progressivamente trasformato il lavoro da necessità a valore morale, da attività retribuita a fattore identitario totalizzante.

Nell’intervista Niccolò Fettarappa, co-autore e interprete dello spettacolo, approfondisce le riflessioni che ne costituiscono la base teorica e drammaturgica. Filosofia del lavoro, narrazione generazionale, funzione dell’ironia e scelte linguistiche sono al centro di un discorso critico che non si limita alla scena, ma interroga la struttura stessa della realtà contemporanea.

CD: Partiamo dal titolo: cosa c’entra la felicità con il lavoro?

NF: Purtroppo, oggi, moltissimo. Un tempo, nemmeno troppo remoto, la felicità si cercava fuori dal lavoro: si lottava per diminuire il tempo dedicato alla fatica lavorativa, per recuperare tempo di vita, tempo in cui essere felici. Oggi, per una trasformazione ideologica in cui siamo più o meno tutti finiti, il lavoro è diventato lo strumento principale attraverso cui cerchiamo il senso della nostra vita. Questo non è necessariamente un male, ma lo diventa nel momento in cui il lavoro viene descritto, riportato, raccontato come l’unico strumento totalizzante per raggiungere la felicità.

CD: E cosa succede quando questo meccanismo si interiorizza?

NF: Nel nostro spettacolo proviamo ad aprire un dubbio, una fessura in questo regime discorsivo. Ci chiediamo: per quanto una persona si senta libera, realizzata nel proprio lavoro, non è forse ancor più schiava? Perché oltre a essere sfruttata, si considera libera. E questo è, a mio avviso, un doppio inganno.

CD: Nella sinossi dello spettacolo si parla di “lavoro tossico”. E poi fai un riferimento generazionale: a chi ti riferisci esattamente?

NF: Direi che si tratta della generazione che è entrata nel mondo del lavoro dagli anni Novanta in poi. Quella che ha interiorizzato – o subìto – il mito del libero professionismo, della partita IVA. Una generazione convinta, o convinta a credere, che essere autonomi significhi essere liberi. Ma questa narrazione, per quanto fallace, ha funzionato benissimo. Ha frammentato i lavoratori, li ha parzializzati, isolati. Ci ha trasformati in piccoli imprenditori di noi stessi, ognuno solo in un’arena in cui bisogna prevaricare gli altri per avere più successo. E se questa è la versione “positiva”, nel peggiore dei casi ti si dice che sei “autonomo” ma in realtà sei precario con contratti da freelance. È molto più conveniente tenerti ai margini, come un satellite che orbita attorno, ma non entra mai nel corpo dell’azienda. Tutto questo, nel mio lavoro teatrale non lo affronto in ottica sindacale, non sono un sindacalista, il mio discorso si muove altrove, perché questa condizione ha conseguenze enormi anche sul piano biografico, sulla costruzione delle nostre vite.

CD: In che modo il lavoro diventa allora un dispositivo narrativo, più che economico?

NF: Il lavoro resta oggi il medium narrativo prioritario. Quando conosci qualcuno, una delle prime domande che fai – se non la prima – è: «Che fai nella vita?». Nessuno risponde dicendo: «Cerco di essere felice». Rispondiamo sempre con una mansione. È il lavoro che ci definisce. E allora cosa succede a una persona se quel lavoro è sempre più a singhiozzo, intermittente, precario? Se non è più una realtà stabile, ma un oggetto desiderabile, mai pienamente afferrato? Succede che comincia a desiderare il lavoro, dimenticando che forse, in un mondo più giusto, il lavoro dovrebbe essere ridotto.

CD: Si lavora per vivere, o il contrario?

NF: Questo è il punto. Una volta si poteva dire: «Lavoriamo per vivere». Oggi sembra che si viva per lavorare. E questo discorso, per come lo intendo, è generazionale. Mio nonno, ad esempio, appena conclusi gli studi, ha trovato subito un impiego. Ma quel mondo, oggi, non esiste più. Vale anche per chi fa il mio lavoro, un lavoro artistico. Negli anni ’60 o ’70 si viveva in un altro contesto, c’erano altri equilibri: c’era una fase espansiva del capitale, c’era più sostegno, più collettività, più connessione tra le persone. Oggi la logica imprenditoriale ha contagiato anche il nostro comparto, quello culturale, i fatti recenti lo dimostrano. Quando si parla di sfruttamento lavorativo, si pensa sempre all’impiegato aziendale, al mondo delle grandi società, ma questa logica riguarda tutto.

CD: E chi lavora nella cultura paga ancora di più.

NF: Si è doppiamente fregati. Se il lavoro che fai ti piace, allora viene considerato un privilegio, perciò pagarti diventa secondario. L’idea è: ti sto già facendo un favore. Ti sto permettendo di fare quello che ami, quindi ti sto pagando in “felicità”, in “punti vita”. Questo tipo di narrazione è ancora più tossica, perché invisibilizza la fatica, l’impegno, la dignità di ciò che facciamo. Il nostro lavoro viene trattato come un lusso. E i lussi, si sa, si possono tagliare.

CD: Entrando nella scrittura: lo spettacolo ha un taglio ironico. Come lavori sul linguaggio?

NF: È difficile rispondere perché non ho un metodo preciso. Ogni spettacolo ha una sua forma, una sua lingua. Credo che l’ironia sia uno strumento potentissimo. Non penso che alle cose grevi si debba per forza rispondere con grevità. La risata – come diceva Brecht – è uno strumento pedagogico. Ovviamente non parlo della risata catartica, da intrattenimento o da sollazzo.

La risata che cerco come autore è quella che fa salire il sangue alla testa. Che ti fa ragionare, anche fisicamente. Come il pianto, anche la risata può essere un attivatore fisico. Va recuperata come parte del processo cognitivo. Oggi in commercio circolano molte risate “conservatrici”, io cerco di lavorare su una risata che disorienti, che smascheri, che attivi il pensiero critico.

CD: È evidente quanto il tuo linguaggio teatrale sia contaminato da ciò che ti circonda. Da dove attingi maggiormente?

NF: Immergendomi nella realtà il più possibile. La velocità comunicativa che cerco nei miei spettacoli deriva direttamente dalla nevrosi quotidiana che viviamo. Cerco di essere onnivoro: prendo termini dalle chiacchiere tra amici, dalle frasi sentite sul treno, dai titoli dei giornali. Ogni spettacolo ha un suo linguaggio. In «Solo quando lavoro sono felice» attraverso l’ironia cerco di rintracciare i semi del linguaggio neo-imprenditoriale: «credi in te stesso», «diventa imprenditore di te stesso»… è una lingua incantatoria, da religione laica del lavoro. Ora sto scrivendo un nuovo spettacolo e sto ancora cercando di capire in che linguaggio muovermi. Ogni spettacolo, in fondo, chiede un linguaggio suo. Non si parte mai da un modello predefinito.

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