Omar Manneh aveva 6 anni quando cominciò a giocare a calcio con i suoi compagni di scuola lungo le strade di Brikama, in Gambia. Partecipava a dei piccoli tornei a squadre nei quali si vinceva anche del denaro. Nei giorni fortunati, per festeggiare la vittoria, lui e i suoi amici compravano Coca Cola, spaghetti, pomodoro e pollo da condividere. Poi, mettevano le canzoni di ST, un musicista reggae gambiano, e ballavano insieme. «Eravamo felici», racconta oggi il ragazzo, davanti ad una Sprite in un bar poco distante dalla Comunità Don Milani di Sorisole, dove vive insieme ad altri giovani dal 21 febbraio 2024.
Oggi Omar ha 17 anni e ha da poco vinto il primo premio nella categoria under 19 del concorso letterario «Nerio Marabini – Racconta lo Sport», che quest’anno aveva come traccia «Una vittoria indimenticabile: quale trionfo sportivo ti ha emozionato di più e perché». Per rispondere, Omar ha deciso di riavvolgere il nastro della sua storia e intrecciarlo con un filo rosso che da sempre ha accompagnato le tappe della sua vita: il calcio.
Il suo racconto autobiografico – non a caso intitolato «La mia vita e il calcio» – è quello in realtà di un ragazzo che intende vivere la normalità della sua giovane età, fatta di studio, partite di calcio con gli amici e qualche progetto per il futuro. È quindi in realtà l’attuazione del diritto al gioco, alla socialità e allo studio, stabiliti per ogni minore dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Siano italiani o stranieri, maschi o femmine, con o senza documenti, i minorenni infatti sono tutti uguali davanti al diritto internazionale, come per la nostra Costituzione e il nostro diritto interno. E così, anche Omar ha sempre vissuto come la sua età suggeriva di fare.
Nel 2023 però, a 15 anni, decise, insieme a un suo amico, di partire dal Gambia alla volta dell’Italia. Fu lì che i tornei di calcio con gli amici cominciarono a sfumare in un bel ricordo. «Il nostro viaggio è stato molto lungo: ci abbiamo impiegato 9 mesi – ricorda Omar – Siamo passati da Senegal, Mali, Algeria e Tunisia. Ci fermavamo solo per lavorare e guadagnare i soldi necessari per proseguire il viaggio. La parte più dura è stata attraversare il deserto. A Tunisi io e il mio amico ci siamo divisi. Da lì, io ho preso un gommone verso Lampedusa. Il mio amico, non l’ho più sentito».
Dall’isola, Manneh venne poi trasferito in una comunità per minori a Vibo Valencia dove, per la prima volta dopo tanto tempo, ritrovò quella passione che aveva fin da piccolo: «Per trascorrere le interminabili giornate ho ricominciato a giocare a pallone con i miei nuovi amici – continua il giovane – Purtroppo però non c’era un vero e proprio campo da calcio, quindi andavamo in spiaggia e costruivamo le porte con dei bastoni che trovavamo qua e là». Un po’ rudimentali, ma quelle partite, di fatto, non erano altro che il suo primo tentativo di riappropriarsi del suo imprescindibile diritto al gioco.
Già nel 1959, in realtà, la Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo riconosceva per la prima volta, a livello internazionale, l’importanza per bambini e bambine, ragazzi e ragazze di dedicarsi a giochi e attività ricreative orientate a fini educativi. La società e i pubblici poteri - come si legge in un documento a cura di Antonietta Varricchio ( «Rassegna giuridica infanzia e adolescenza») - cominciarono così a prendere coscienza di quanto fosse fondamentale favorire la realizzazione di tale diritto. Fu poi con la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata il 20 novembre 1989, che arrivarono gli obblighi – non solo morali – per gli Stati di uniformare le norme di diritto interno e di attuare quanto necessario per tutelare pienamente i minorenni, nonché la conseguente applicazione di sanzioni in caso di inosservanza degli stessi. E fu così che tra gli obblighi della comunità internazionale nei confronti dell’infanzia, venne riconosciuto ufficialmente il diritto a dedicarsi al gioco e alle attività ricreative, attraverso due commi dell’articolo 31.
Giocare a calcio è dunque un diritto per Omar Manneh. Non ci si dovrebbe quindi stupire che questo gioco abbia accompagnato tutte le tappe della sua vita e che sia stato al centro del suo tema.
Quando venne trasferito nella comunità di Sottochiesa in Val Taleggio, la prima cosa che Omar cercò fu proprio un campo in cui giocare e, come lui, anche gli altri giovani della comunità. In quel caso, si accontentarono di un campo da basket, precisa Omar, ricordando, divertito, quel periodo: «Tutti i ragazzi parlavano la propria lingua ed era bello ascoltare le urla in francese, inglese, mandinka, bambaran, wolof e fula: c’erano così tante lingue, ma ci capivamo tutti quando dovevamo fare goal!». Dopo quattro mesi in Val Taleggio, arrivò per il giovane il momento di spostarsi a Sorisole, nella comunità Don Milani.
A questo punto del racconto, i suoi occhi si illuminano: «Sono arrivato a Bergamo il 21 febbraio 2024 e qui, finalmente, ho trovato un bellissimo campo dove potevo allenarmi dopo la scuola. Soprattutto in estate abbiamo giocato tantissimo fino alla sera tardi». Nella comunità a Sorisole, Omar conosce anche quella che definisce «la squadra del cuore»: l’Atalanta. «Tutti i bergamaschi sono tifosi di questa squadra ed io per sentirmi come loro ho iniziato a seguire le partite sul telefonino e sul mio balcone ho messo la bandiera neroazzurra. In comunità ci troviamo attorno allo schermo per vedere le partite della Dea e facciamo tutti il tifo perché vinca», racconta il giovane.
Tra una partita sul campo e una vista insieme agli altri ragazzi della Comunità Don Milani, Omar conosce poi una figura che sarà per lui molto importante: Emilia, la sua tutrice. È stata lei ad aiutarlo a trovare una squadra per allenarsi a giocare a calcio e dare un futuro a questa sua passione. Omar conclude il suo tema raccontando proprio la sua prima partita di campionato: «Ero molto agitato – racconta il giovane che ha giocato lo scorso campionato nella Virescit Calcio e che il prossimo anno vestirà la maglia del Boccaleone Calcio – perché avevo paura di sbagliare, ma alla fine ho fatto ben due goal: è stato bellissimo far vincere la mia squadra, mi sono sentito subito forte e capace, sicuro di me, e questo mi ha aiutato molto ad inserirmi nel gruppo. Quando sono tornato nello spogliatoio dopo la partita il mister mi ha detto che ero davvero bravo e che dovevo assolutamente rimanere con loro anche l’anno successivo. Ricordo quella giornata come una rinascita nella mia città: BergAMO».
Oggi Omar ha ottenuto la terza media e intende continuare a studiare. Nel suo futuro, vede il calcio, ma soprattutto vede l’Italia.