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La spesa non è più la stessa: nei supermercati l’IA riscrive ruoli, turni e diritti

Articolo. L’efficienza promessa dall’IA si traduce in ritmi più intensi, turni imprevedibili e controllo algoritmico. E i lavoratori pagano il prezzo dell’innovazione

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Mentre il dibattito pubblico si concentra sullo smart working e sulle nuove flessibilità per i colletti bianchi, è facile dimenticare che il mondo attorno ai noi funziona grazie a milioni di lavoratori che ogni giorno escono di casa e vanno fisicamente al lavoro, rispettando orari stretti e mansioni rigide. È grazie a loro che abbiamo accesso alla maggior parte dei servizi essenziali di cui usufruiamo quotidianamente. Oggi vengono chiamati, con un inutile inglesismo, location-dependent. Tra di loro ci sono anche tutti coloro che operano nella grande e piccola distribuzione, come cassieri, magazzinieri, addetti allo smistamento, al riordino, alla sicurezza e alle pulizie. Proprio su questa forza lavoro, però, si sta abbattendo silenziosamente un’ondata di automazione che, promettendo efficienza, rischia di tradursi in un peggioramento delle condizioni lavorative e in un processo di dequalificazione di massa.

Basta entrare in un supermercato per vedere il futuro del settore. Per il consumatore il rituale è sempre lo stesso: carrello, lista, prodotti. Ma mentre è concentrato sugli scaffali, attorno al lui sta accadendo qualcosa di più profondo di un semplice acquisto. Prima ancora che un contenitore di merci, il supermercato è un ecosistema di persone. E quello che il consumatore sta attraversando è un laboratorio a cielo aperto della trasformazione del lavoro: casse automatiche che sostituiscono i tradizionali sportelli, robot per la gestione dell’inventario e software predittivi che stabiliscono gli orari di lavoro. Questi strumenti non sono neutri. La loro implementazione, spesso dettata esclusivamente dalla logica del taglio dei costi, sta riconfigurando il lavoro umano in modi problematici.

Innanzitutto vi è una intensificazione dei ritmi nascosta dietro l’efficienza. Prendiamo l’addetto ai self-checkout. Non è un cassiere “liberato” dalla monotonia, ma un supervisore multitasking, costretto a gestire fino a otto macchine contemporaneamente. Il suo lavoro diventa una sequenza frenetica di micro-emergenze: errori di scansione, codici illeggibili, clienti in difficoltà. Lo stress aumenta, il controllo sul proprio ritmo si riduce e l’interazione umana, un tempo parziale fonte di soddisfazione, si trasforma in pura gestione della frustrazione.

Dopodiché vi sono i software di scheduling che ottimizzano i turni in base ai flussi di clientela. Il risultato? Orari spezzati, turni di poche ore e un ricorso massiccio al part-time involontario. Per il lavoratore, questo si traduce in un reddito instabile e nell’impossibilità di conciliare vita e lavoro. La flessibilità è qui un dispositivo di controllo unidirezionale, che trasforma il tempo di vita in variabile dipendente di un’equazione aziendale.

Inoltre la tecnologia non si limita a ottimizzare: monitora e sorveglia. Le telecamere con software di video-analisi non servono solo a prevenire i furti, ma a monitorare la produttività dei dipendenti: quanti articoli per ora scannerizza un cassiere, quanto tempo impiega un commesso a riordinare uno scaffale. Ogni movimento è quantificato e analizzato. Una sorta di panopticon digitale dove il lavoratore perde autonomia e diviene un ingranaggio il cui valore è misurato da metriche impersonali.

Ma il processo più insidioso è forse la svalutazione delle competenze. L’esperienza del responsabile di reparto che ordinava basandosi sulla conoscenza del territorio viene sostituita da un algoritmo di replenishment (altro inglesismo in voga nel settore; significa semplicemente «rifornimento»). La professionalità del cassiere viene ridotta alla capacità di intervenire sugli errori di un sistema. Diviene un’appendice della macchina, un tappabuchi per i suoi fallimenti. La sua skill principale è risolvere l’errore «articolo non riconosciuto». Si parla tanto di upskilling, ma per nella stragrande maggioranza dei casi non si diventa tecnici specializzati; ci si ritrova intrappolati in ruoli poveri, generici e facilmente sostituibili, all’interno di un mercato del lavoro sempre più polarizzato.

Non si tratta di avere nostalgia delle vecchie figure. Tutt’altro, il loro superamento potrebbe essere una grande conquista tecnica e sociale. È chiaro che sarebbe auspicabile un mondo dove nessuno debba più stare alla cassa a passare articoli. Per arrivarci, tuttavia, serve una governance “sindacale” della tecnologia. Soprattutto nella fase di transizione. L’automazione potrebbe davvero liberare dalle mansioni più ripetitive, ma in questo settore sta invece creando lavori più stressanti, precari e poveri di significato. Il vero nodo non è la tecnologia in sé, ma il modo in cui viene gestita. Non basta reagire ai licenziamenti; serve governare la transizione fin dalla fase di progettazione. Bisogna negoziare limiti alla sorveglianza algoritmica, regole sugli orari generati dall’IA, percorsi di riqualificazione autentica e la difesa di spazi di autonomia e relazione umana. Il supermercato, come uno specchio della nostra società, ci sta mostrando un bivio che attraversa tutto il mondo del lavoro: decidere se l’IA sarà uno strumento per emancipare il lavoro o un meccanismo per il suo svilimento definitivo. Pensiamoci mentre facciamo la spesa.

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