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#psicogeografie: il mostro che riflette

Articolo. Ci si riflette nello specchio, ma anche nello sguardo di chi incontriamo per strada. Chi sono? Cosa voglio? Cosa vedono gli altri? Un tentativo di meditazione su alcuni concetti difficili, come quello di identità e di responsabilità individuale e collettiva

Lettura 4 min.

Difficile da credere, per chi mi conosce “di vista” da meno di una ventina di anni, ma una volta avevo i capelli, e lunghi. La natura e la genetica, impietose, hanno sancito la loro sentenza, e abbastanza improvvisamente ho deciso di rasarmi la testa. Per alcuni giorni, quando mi guardavo allo specchio, non mi riconoscevo. Ovviamente sapevo di essere sempre io, tuttavia al primo impatto la mia immagine riflessa mi dava, per una frazione di secondo, un istante di smarrimento, una dissonanza cognitiva. Naturalmente non ha senso identificarsi con la propria immagine allo specchio – non dimentichiamoci che la persona che vediamo riflessa ha il cuore a destra – tuttavia ci somiglia parecchio, ed è un buon punto di partenza per riflettere, appunto, sul concetto di identità.

Due delle domande “di fondo” – nel senso di “fondamentali” in quanto costituiscono le fondamenta di una ricerca di senso – a cui si cerca di rispondere in analisi sono: «Chi sono?» e «Cosa voglio?». Possono essere banali e semplicistiche se ci si limita a una risposta superficiale, ma se approcciate con la giusta profondità hanno radici che sprofondano nell’esistenziale.

Ci si riflette nello specchio, ma anche nello sguardo di chi incontriamo. Nella nostra crescita e nella costruzione della nostra psiche, è molto importante lo sguardo di chi si prende cura di noi. Siamo animali relazionali, fin dalla nascita e probabilmente anche da prima, per cui siamo in buona parte definiti anche dalle relazioni e dagli sguardi. Sicuramente possono essere formativi o distruttivi gli sguardi di chi ci è molto vicino quando siamo piccoli, ma non sono da trascurare anche quelli fugaci e casuali che possiamo incontrare nella vita adulta.

Mi è capitato di trovarmi solo in una strada abbastanza buia, credo stessi aspettando qualcuno, fermo. Una donna che si trovava a passare di lì, avvicinandosi a me ha abbassato la testa per non incrociare eventualmente il mio sguardo, e ho avuto l’impressione che accelerasse il passo. Di primo acchito mi sono chiesto se ci fosse qualcosa di strano nel mio aspetto, qualcosa di inquietante. E sì, qualcuno potrebbe anche trovare la mia barba sospetta, forse ero vestito di scuro, ma non è questo il punto. Non sono un mostro, ma sicuramente “assomiglio” a un mostro. In un momento storico in cui molte donne vengono uccise da qualcuno che, almeno superficialmente, mi somiglia, ho cominciato a riflettere sulla mia identità.

Paul B. Preciado, scrittore e filosofo spagnolo, in un discorso tenuto a una società psicanalitica francese (pubblicato in Italia con il titolo « Sono un mostro che vi parla ») critica l’idea che esista un’identità universale “normale”. In maniera simile, la ricerca psicologica si è interrogata su quello che è stato definito il W.E.I.R.D. bias , ovvero quell’errore strutturale per cui gran parte delle ricerche psicologiche avevano un campione di riferimento simile: si riferivano a una popolazione occidentale, istruita, proveniente da un paese industrializzato, ricco e democratico (l’acronimo di queste parole in inglese è appunto «weird», che significa «strano», a indicare come quella che possiamo considerare “normalità” sia in realtà così solo per una minoranza di esseri umani).

E quindi eccomi, in quanto essere umano europeo, bianco, eterosessuale e cisgender, straordinariamente simile – o almeno, con diversi tratti identitari comuni – ai colpevoli di molti dei mali a cui assistiamo troppo spesso. Se un alieno non abituato alla razza umana e alle forme di vita della Terra mi vedesse, non credo coglierebbe chissà quali differenze fra me e chi commette femminicidi, inquina il pianeta, mette in atto politiche razziste discriminatorie e omicide, contribuisce attivamente alla sesta estinzione di massa. Se il nostro ipotetico alieno potesse avere la capacità di vedere oltre il tempo presente, nel passato (non oso immaginare il futuro), come i tralfamadoriani di Kurt Vonnegut, vedrebbe che esseri molto simili a me hanno commesso atrocità terribili.

Sembra appunto che esseri simili a me abbiano avversione e spesso comportamenti violenti o discriminatori verso esseri diversi da me da un qualche punto di vista, come per esempio sesso, genere, orientamento sessuale, colore della pelle, provenienza geografica, condizione socio economica, stato di salute fisica o psichica, aspetto esteriore. Ma potrei aggiungere anche cultura, età, istruzione e questo elenco potrebbe continuare con chissà quante differenze, che probabilmente al nostro osservatore alieno appaiono assolutamente superficiali.

«Non sono stato io, non è colpa mia, io non ho mai…» e ci mancherebbe. Tuttavia, quando leggo notizie di quello che il mio genere continua a fare sugli altri, quando politici con la pelle del mio stesso colore approvano leggi che causano la morte di persone diverse, quando vedo (e sento sulla mia pelle, grazie ai recettori della temperatura) quello che la mia specie sta facendo alle altre e alla Terra, non posso restare indifferente, mi sento in qualche modo responsabile.

In psicoterapia, spesso è utile comprendere la differenza fra colpa e responsabilità. La colpa è un concetto giuridico o religioso, evoca l’immagine di un dito puntato, un dito che esce da una nuvola o da una toga, evoca il senso di giudizio. Quando ci si sente in colpa si sente di essere sbagliati. La responsabilità invece ci richiama all’azione: possiamo fare qualcosa di sbagliato, ma possiamo anche provare a rimediare. Non abbiamo la colpa di quello che ci è successo, ma abbiamo la responsabilità di fare qualcosa per cambiare ciò che non ci fa stare bene.

Allo stesso modo, anche se “non è colpa nostra” quello che succede nel mondo (e al mondo) perché “non abbiamo fatto niente di male”, non sono certo che questo che sia sufficiente a scansare ogni responsabilità.

Possiamo fare gesti, anche piccoli, che vadano nella direzione di un rispetto incondizionato di chi e di ciò che è diverso da noi. Possiamo apprezzare le differenze come ricchezza, cercare di garantire gli stessi diritti a tutte le persone. Paradossalmente, almeno in apparenza, questo può partire dal rispetto e dall’amore incondizionato verso di noi. Spesso abbiamo dentro un giudice spietato, un Grande Inquisitore, la cui severità impietosa e crudele verso ciò che vede diverso fuori si riflette all’interno, verso ciò che crede sbagliato in noi.

Torniamo quindi di fronte al nostro specchio. Ho preso spunto da due maestre del mio percorso di formazione in analisi bioenergetica per elaborare queste due semplici pratiche. La mattina possiamo guardarci allo specchio e farci delle smorfie, delle linguacce, cercando di riuscire a farci ridere. La sera, prima di andare a dormire, possiamo dirci un sincero: «Grazie». Può essere che a un certo punto qualche nodo, o del ghiaccio si sciolgano in noi, liberando un po’ di amore.

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