La gioia della convivialità. Noi bergamaschi la riscopriamo quando in tavola viene servita la polenta, con quel suo color girasole, ma anche con quel suo profumo così intenso e preciso che guida il cuore ai pranzi della nostra infanzia, ai pomeriggi di festa passati in famiglia, alle tovaglie a quadri dei nostri nonni. Un ricordo affettivo, dal sapore identitario, che, per quanto mi riguarda, ha a che fare con mio padre quando, quasi ogni domenica, dopo aver rimestato per un’ora la farina nel paiolo, poneva, con aria compiaciuta e felice, quel piccolo e caldo spicchio di sole sul tagliere di legno. La polenta, in casa nostra, non avanzava mai: persino le croste, raschiate via con il coltello, venivano immerse nel latte della colazione del giorno dopo.
È una forma di memoria la mia, come ce ne sono tante legate al cibo, soprattutto fra noi italiani. Eppure, quando si parla della nostra cucina nazionale, si preferisce dimenticare le origini umili dei nostri piatti tradizionali, che hanno a che fare con una realtà passata fatta spesso di povertà e miseria.
A rammentarcelo, con delicatezza ma anche con incisività, «Fame? Uno spettacolo sul cibo perduto», la rappresentazione teatrale che, alle 19.30 di mercoledì 20 agosto, presso Piazza Mascheroni, verrà portata in scena da Enrico Testoni (Compagnia CreAzione), all’interno del «Food Film Fest», festival internazionale del cibo che quest’anno, giunto alla sua dodicesima edizione, si svolgerà dal 20 al 23 agosto e avrà come tema centrale proprio quello della memoria. Abbiamo intervistato Enrico Testoni per approfondire lo spettacolo.
FR: Di cosa parla lo spettacolo?
ET: Lo spettacolo, in cui elementi di show cooking si fondono con il teatro di narrazione, evoca ricordi autobiografici, legati al passato della mia famiglia (attiva, un tempo, nell’ambito della ristorazione) e al suo rapporto con il cibo. Si prosegue, poi, con i piatti della cucina tradizionale italiana, al mito che si è venuto a formare attorno a essa e al suo essere concepita, da un punto di vista gastronomico, come una vera e propria istituzione. Si giunge infine alla fame nel mondo, tremenda piaga sociale della nostra epoca, e al fatto che lo spreco alimentare sia una delle sue cause. A innervare il tutto, uno sguardo poetico, ma anche ironico, disincantato e, a tratti, dissacrante.
FR: Il punto interrogativo dopo la parola «fame» pare provocatorio…
ET: È legato alla grande domanda suggerita dallo spettacolo, ovvero cosa sia realmente la fame. La fame, io e i miei coetanei, non l’abbiamo mai conosciuta e, naturalmente, nemmeno coloro che, nel primo mondo, appartengono alle generazioni più giovani. Per fame, intendo quella vera, non il languirono, ma la mancanza di cibo. E quali sono i risvolti sociali dati dall’assenza di fame? Il cibo smette di essere concepito come semplice nutrimento e diventa altro. La stessa cosiddetta cucina italiana è nata quando la fame è terminata definitivamente.
FR: I talent show culinari contribuiscono alla percezione di cui lei parla?
ET: Sì, ma questa percezione è antecedente alla tv: prende forma negli anni Settanta ed è una risposta alla nouvelle cuisine francese. Il cuoco comincia a farsi chiamare chef e inizia a perseguire, se così si può dire, una cucina di ricerca, incentrata sulla novità, sulla diversità e sulla reinterpretazione dell’atto di mangiare. I programmi televisivi hanno sicuramente portato agli estremi esiti questa tendenza, propria della nostra epoca e del modo di comunicare contemporaneo, ma la distorsione rispetto al cibo, come detto, fiorisce molto prima. Ed è buffo notare come essa, nata con aspirazioni elitistiche, sia finita per assumere tratti squisitamente popolari. Non parlo tanto della cucina in sé, ma dell’importanza che noi italiani diamo alla nostra tradizione culinaria, per la quale, a volte, addirittura, litighiamo. Eppure, impegnati a tesser le lodi di alimenti che un tempo nobili non erano di certo e presi da chissà quali miti identitari e tradizionalistici, ci dimentichiamo da dove essa, storicamente e socialmente, sia venuta, ovvero da realtà locali e autoctone, formate da uomini e donne che, ogni giorno, dovevano fronteggiare il rischio dell’inedia. E quando dimentichiamo tutto ciò, ci scordiamo anche di che cosa sia la fame e di quanto sia importante la lotta allo spreco.
FR: In quale area del mondo si spreca più cibo?
ET: Le statistiche dicono che il maggior spreco alimentare avviene in quello che noi chiamiamo Occidente: Europa e America settentrionale. Col cibo sperperato in Occidente, si potrebbero sfamare due miliardi di persone all’anno. L’Italia non è né la meno né la più virtuosa: all’incirca, si trova a metà classifica. Da un punto di vista domestico, in Italia, ognuno di noi, mediamente, all’anno, butta via 27 kg di cibo: circa un terzo di quello che viene prodotto. Nel mondo, sono 345 milioni le persone che soffrono la fame. Di queste, 60 milioni sono bambini sotto i cinque anni d’età. È un dato inquietante se si pensa che è lo stesso numero dei cittadini italiani.
FR: Lo spreco alimentare è direttamente proporzionale alla ricchezza. È una cosa scontata?
ET: Più si è ricchi, più si spreca? Non è né una legge né un obbligo, è una scelta. Lo spreco, inoltre, dipende solo parzialmente da noi: non c’è solo quello casalingo, infatti, ma anche della grande distribuzione. I miei nonni paterni possedettero, per breve tempo, un ristorante a Milano. Chiuse prima che io nascessi. Quando mio padre mi raccontava del ristorante, mi diceva che aveva cessato l’attività perché sua madre non aveva una mentalità da chef, non voleva buttare via niente. Mia nonna, difatti, riciclava tutto: usava gli avanzi per dar vita a degli ottimi antipasti. Da questo aneddoto, è nata la riflessione che sta alla base del mio spettacolo teatrale.
FR: Avere una mentalità da chef significa direttamente sprecare il cibo?
ET: Ultimamente, si stanno diffondendo esempi virtuosi: talent show culinari che aderiscono a progetti di lotta allo spreco alimentare; chef che recuperano gli scarti per dar vita, per esempio, a torte e gelati. Ma se tutto ciò fa scalpore, significa che prima non era così e che tutt’ora non sempre lo sia. Del resto, una cucina all’insegna di innovazione e sperimentazione, lavorando sulla materia prima, non si preoccupa troppo degli scarti (commestibili) che produce.
FR: Lo spettacolo potrà contribuire ad arginare il fenomeno dello spreco?
ET: Il teatro deve far riflettere, non certo fare la morale o imporre un pensiero. Ma è anche vero che, quando ho cominciato a interessarmi alla tematica della fame e dello spreco, non avevo ben presente quali fossero i numeri reali. Pensavo, come molte altre persone, che fame e spreco fossero fenomeni estremamente circoscritti. Una volta che ho letto i dati, ho capito che non potevo più ignorare questa piaga. Non che prima buttassi il cibo dalla finestra, ma ora, quando posso, cerco di acquistare da venditori locali e di comprare prodotti che stanno per scadere. Modificare le proprie abitudini andrà a risolvere il problema? Non credo, per lo meno non in maniera totale. Ma la coscienza (e la compassione verso coloro che non hanno di che nutrirsi) va accesa con la scintilla della consapevolezza.
FR: Quali sono i piatti che verranno portati in scena?
ET: Sono tre: la carbonara, le frittelle salate (come le faceva mia nonna) e un terzo piatto che preferisco tenere segreto per non togliere l’effetto sorpresa.
FR: C’è relazione fra cibo e memoria?
ET: C’è sicuramente un legame: lo spettacolo stesso ne parla quando riflette sul concetto di tradizione e sulla volontà di costruire artificiosamente una memoria collettiva. E questo, forse, funziona benissimo con il cibo perché esso, innegabilmente, rivela un potere emotivo e sociale molto forte.
FR: «Siamo ciò che mangiamo», dice Feuerbach. È così anche per lei?
ET: Io non credo che il cibo che mangiamo vada a influire sul nostro essere. Penso piuttosto che il nostro essere debba scegliere in modo etico cosa e come mangiare.
Il programma di «Food Film Fest»
Il programma della rassegna proseguirà alle 20 del giorno successivo con il progetto internazionale «Pueblos del Maíz», che, da San Antonio (città gemellata con il capoluogo orobico), porterà a Bergamo una ricetta “esotica” a base di mais, mentre, alle 21.15 il fotografo Marco Tortato accompagnerà il pubblico in un viaggio fotografico tra gusto e immagine: un racconto sulla sinestesia e sul rapporto fra memoria umana e ricordo. Alle 20 di venerdì 22 agosto, invece, Stefania Ruggeri e Sonia Massari, accademiche e ricercatrici, interverranno alla serata dedicata al food design, inteso come strumento di sostenibilità e formazione.
Sabato sera, alle 20, sarà poi la volta di Massimo Boldi che, con ironia e leggerezza, racconterà il legame tra cibo e comicità nel cinema italiano. A seguire, la magia dello spettacolo «Sand Movie» di Andrea Arena, che trasformerà sabbia e luce nelle più iconiche scene del grande schermo. Ma questo è solo un assaggio: «Food Film Fest» proporrà un ricco calendario di proiezioni cinematografiche internazionali, approfondimenti ed eventi dedicati all’educazione alimentare, nonché incontri con artisti e professionisti del settore.
Per il programma completo consultare il sito internet ufficiale.