In uno degli ultimi video dei bambini Ferragnez prima che venissero ritirati dai social (non è gossip, prometto) c’è Leone in prima elementare, ripreso mentre legge impeccabilmente un testo in inglese. Non ho mai seguito intenzionalmente i suoi genitori, ma ricordo che quel video specifico capitato nel mio feed mi aveva colpito.
In quello stesso periodo, mio figlio – che, a differenza di Leone Lucia Ferragni, frequenta la scuola pubblica – aveva un orario scolastico che prevedeva un’ora di inglese la settimana. La maestra – una giovane che a me parve preparatissima, e che fino all’anno prima insegnava in una scuola (privata) bilingue – era abbastanza sconfortata per il fatto di avere un orario così ridotto. Non posso sapere se, alla fine, ce l’avrebbe fatta a gettare una qualche base linguistica perché, come tutte le insegnanti under 30 che ho conosciuto, era precaria e ora non è più nella stessa scuola.
Nel frattempo mio figlio ha cambiato tre maestre di inglese in tre anni e non è assolutamente in grado di leggere in inglese come Leone, ma neanche di coniugare il verbo essere o di presentarsi, o di seguire Peppa Pig in lingua originale. Eppure il suo quaderno di inglese è disseminato di excellent, fa i compiti, impara ciò che gli viene richiesto, è seguito. Avrà mai modo di imparare davvero l’inglese semplicemente frequentando con profitto la scuola pubblica? Per me è un enorme punto di domanda.
Dovrei, come fanno altri genitori, intervenire con corsi privati, o studiandomi io una routine di apprendimento della lingua? Ammetto di non sentirmi abbastanza confident nel mettermi a parlargli in inglese, se non per qualche frase elementare, ma dopotutto perché dovrei pensarci io? Oppure, al contrario, avrei dovuto pensarci prima, settando i cartoni in inglese fin da quando aveva due anni e studiandomi una didattica adatta ai primi anni di vita?
Una questione di classe sociale
La conoscenza delle lingue viene ancora vista come una dote naturale, un’attitudine che certi hanno e altri no. Oppure come un’abilità che gli happy few apprendono con facilità da piccoli: gli aristocratici e gli Agnelli di una volta con le loro bambinaie inglesi, i figli degli odierni ricchi con le loro scuole specialissime o qualificate au pair. La gente “normale”, che non ha avuto la babysitter madrelingua o non ha uno spiccato interesse per le lingue, pare essere destinata ad apprendere a scuola i rudimenti della grammatica, ma se vuole imparare davvero a parlare (magari per necessità di lavoro) dovrà pagarsi corsi di tasca propria o «andare a fare il cameriere a Londra» (così si diceva una volta, poi è arrivata la Brexit).
Una strategia comune
Non c’è una strategia comune, scolastica innanzitutto, per fare sì che tutti, ma proprio tutti, possano apprendere un livello medio accettabile di inglese (così come anche gli studenti mediocri o provenienti da contesti svantaggiati imparano bene o male a leggere e a scrivere). Un livello non per forza da madrelingua, ma sufficiente per non sentirsi in imbarazzo quando un turista ci chiede informazioni o per sostenere un colloquio di lavoro.
Allo stesso tempo, non sapere le lingue porta al biasimo sociale, ma proprio la vergogna impedisce di migliorare nelle competenze linguistiche fondamentali perché manca il coraggio di parlare («E se poi faccio “shish” come Matteo Renzi? Se mi prendono in giro per la pronuncia? E se non capisco cosa mi rispondono?»). Un problema che bisognerebbe risolvere alla radice , a partire dagli anni dell’infanzia quando l’inglese non si impara sui libri di grammatica ma con le canzoncine, l’esposizione alla lingua, la ripetizione, l’ascolto, i cartoni, i libretti, il gioco.
Chi insegna inglese
Uno dei problemi è che, per insegnare inglese alla scuola primaria (e non parliamo neanche della scuola dell’infanzia) non è necessario sapere veramente l’inglese. Qui tocca inoltrarsi nel terribile mondo della burocrazia scolastica, e mi scuso in anticipo per eventuali imprecisioni. Da quello che ho ricostruito, per insegnare inglese alla primaria basta avere la certificazione B1. B1 è il livello intermedio basso, quello che in Italia andrebbe raggiunto alla fine del biennio delle superiori: nel parlato si limita a un’esposizione semplice e sommaria, la comprensione dello scritto è per sommi capi. Ci sono poi alcuni insegnanti “specialisti”, che invece hanno una formazione più specifica (ad esempio sono laureati in Lingue) e possono insegnare inglese in più classi.
Ma, di fatto, qualsiasi maestra abbia superato il concorso (che attualmente prevede un solo quesito di inglese: otto domande a risposta chiusa) può insegnare inglese. Sembra poco? Lo è. Per certi versi è giusto così: perché un bravo maestro o maestra di italiano o matematica dovrebbe essere tenuto a sapere qualcosa di più dell’inglese base, se non deve insegnarlo? Il punto è che, forse, si dovrebbe cominciare a prevedere che chi insegna la lingua straniera– anche e soprattutto ai bambini piccoli – debba saperne davvero di inglese. E non solo di inglese, ovviamente, ma di pedagogia e didattica della lingua.
Una pretesa non assurda, se consideriamo che fra le nuove leve dell’insegnamento ci sono sicuramente diverse persone giovani con una buona conoscenza della lingua, felici di specializzarsi nell’insegnamento dell’inglese. Come la giovane maestra che mio figlio incontrò in prima elementare (e che malgrado le sue competenze credo non sia ancora stata stabilizzata).
Invece, si considera accettabile che i bambini possano entrare in contatto con una lingua inglese approssimativa e imprecisa, finendo per imparare a malapena i numeri e i colori. A questo punto studiare la lingua diventa una formalità inutile, aumentare le ore di insegnamento sarebbe solo deleterio e probabilmente tanto varrebbe rinviarne l’apprendimento più in là nel tempo, nella speranza di trovare un professore capace. O risparmiare soldi per pagare la retta di una scuola privata.
