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Cent’anni dal disastro del Gleno: cosa sappiamo e cosa possiamo imparare ancora oggi

Articolo. Nel 1923, il crollo della diga del Gleno in Val di Scalve causò oltre trecento morti. Ad un secolo di distanza, mentre gli eventi di commemorazione si moltiplicano, rimane una scomoda domanda: «si poteva evitare?»

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(Foto sottosezione CAI della Val di Scalve)

All’alba del 1° dicembre 1923, Francesco Morzenti , unico sorvegliante di quella possente opera architettonica che era la diga di Pian del Gleno, nel territorio di Vilminore di Scalve, ricevette una telefonata. Era la centrale idroelettrica di Molino di Povo, che gli ordinava di aumentare la portata dell’acqua. Morzenti lasciò la cabina di controllo e si avviò verso la passerella a valle della diga. Era buio, pioveva. Mentre azionava il volano per aprire la valvola della saracinesca di scarico, Morzenti sentì un tonfo. Vide sassi che cadevano. Alzò la testa è notò una fessurazione allargarsi da uno dei piloni che reggevano la diga. Senza avere nemmeno il tempo di pensarci, fuggì. Riuscì a stento a salvarsi: di lì a pochi secondi sei milioni di metri cubi di acqua e fango si riversarono sui paesi sottostanti la diga, causando 359 vittime accertate.

Cent’anni dopo, ancora non sembra possibile che sia successo davvero. La diga era stata completata da soli quattro mesi. Dopo il crollo furono lanciate pesanti accuse contro Virgilio Viganò, titolare della Fratelli Viganò, che aveva commissionato l’opera per rendere l’azienda indipendente dal punto di vista energetico: dall’aver utilizzato manodopera a cottimo sottopagata alla cattiva qualità dei materiali e all’assenza di un’adeguata assistenza tecnica durante i lavori.

L’accusa maggiore era di aver proceduto con i lavori nonostante mancassero le regolari autorizzazioni. Il ministro dei lavori pubblici Gabriello Carnazza, nella seduta straordinaria del Senato del Regno del 6 dicembre 1923, specificò che l’autorizzazione era stata rilasciata a seguito di un progetto di massima che adottava sistemi costruttivi e metodi di calcolo impiegati nella maggior parte degli impianti nazionali ma che, successivamente, Viganò decise di cambiare il sistema costruttivo, iniziando i lavori nonostante il parere contrario degli uffici competenti. I progetti esecutivi furono presentati solo alla fine dei lavori.

Una storia complessa

La storia della costruzione della diga del Gleno è lunga e complicata: inizia nel 1907, attraversa tutta la Prima Guerra Mondiale e si conclude nell’estate del 1923, pochi mesi prima del disastro. Numerose irregolarità sono emerse nei mesi successivi, come il fatto che la capacità autorizzata era di 3,9 milioni di metri cubi, mentre a fine lavori la capacità totale era di 6 milioni. O come il fatto che la tipologia costruttiva della diga a progetto, cioè a gravità, venne cambiata in corso d’opera in una diga ad archi multipli e che, fatto ancor più grave, quelli della parte centrale della diga non erano appoggiati sulla roccia ma sul tampone a gravità, che sbarrava nella gola la vallata. Oppure ancora il fatto che i lavori continuarono nonostante l’ingiunzione di sospensione dei lavori data dal Ministero nel giugno 1922.

Come riporta un comunicato stampa del comitato Centenario Disastro Diga del Gleno, la diga raggiunse per la prima volta la sua massima capacità il 14 ottobre del 1923, con un’altezza dello sbarramento che sfiorava i 20 metri di altezza. Neanche due mesi dopo, il 1° dicembre 1923, alle ore 7.15, la parte della diga costruita sopra il tampone crollò e riversò quasi sei milioni di metri cubi di acqua nella vallata sottostante, travolgendo Bueggio, il Dezzo, cinque centrali idroelettriche, Angolo con Mazzunno e Corna di Darfo, per terminare la sua corsa nel fiume Oglio e poi nel lago d’Iseo. Le vittime accertate, tra Valle di Scalve e Valle Camonica, sono state 359. Ingenti i danni materiali causati a privati, industrie e strutture pubbliche.

Ventinove giorni dopo il disastro, al Tribunale di Bergamo vennero incriminati per omicidio colposo Virgilio Viganò, l’ingegnere Giovan Battista Santangelo, suo progettista, e Luigi Vita, impresario costruttore. Il processo, dopo vari rinvii, si concluse il 4 luglio 1927 con la condanna di Viganò e Santangelo a una pena di 3 anni e 4 mesi di detenzione e al pagamento di 7.500 lire oltre alle spese processuali. Vennero poi condonati 2 anni e la pena pecuniaria. Assolto Luigi Vita. Tutte le parti presentarono ricorso: il processo di appello si concluse il 27 novembre 1928 con l’assoluzione sia di Virgilio Viganò, in seguito al suo decesso avvenuto nel frattempo, sia di Santangelo, per insufficienza di prove.

Gli eventi per il Centenario

Per non dimenticare quanto successo, anzi, per farne tesoro come insegnamento futuro, ad aprile si è inaugurato un ricco palinsesto di eventi e iniziative a commemorazione del centenario del Disastro o, in bergamasco, disaster, come è ricordato. La proposta di palinsesto, sviluppata dal comitato Centenario Disastro Diga del Gleno, in coordinamento con enti e istituzioni tra la Valle di Scalve e la Valle Camonica, ha ottenuto il patrocinio della Provincia di Bergamo e della Provincia di Brescia, della Comunità Montana di Scalve e della Comunità Montana della Valle Camonica, oltre che dai Comuni di Angolo Terme, Azzone, Colere, Darfo Boario Terme, Schilpario e Vilminore.

Tra gli altri, il progetto di ricerca dell’Università degli Studi di Bergamo, intitolato «A partire da quel che resta. Il Disastro del Gleno tra storia e paesaggio, memoria e futuro (1923- 2023)», che analizza gli aspetti ingegneristici-strutturali, il profilo storico degli atti, delle piste di indagine e delle vicende processuali e la prospettiva geografica. O anche, il progetto d’istituto «Gleno 2023» dell’Istituto Comprensivo Vilminore di Scalve, che ha coinvolto le scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo e secondo grado su tutto il territorio della Valle di Scalve. O ancora la canzone «Viene giù il Gleno» di Giorgio Cordini, chitarrista e compositore già al fianco di Fabrizio De André, eseguita coralmente insieme a Omar Pedrini , Cristina Donà, Enrico Bollero. E poi: la creazione del cammino della Via Decia , la gara di trail running « Colere MUST » («Memorial Ultra Scalve Trail») e l’evento di punta, nella data dell’anniversario, «A 100 anni dal disastro del Gleno».

Oltre il disastro del Gleno, l’impatto ambientale delle dighe

Gli eventi sono tantissimi, così come le riflessioni che fanno nascere in merito alla tragedia. Ciò che è successo, quel 1° dicembre 1923, poteva essere evitato? La risposta sembra scontata, eppure il rischio di disastri causati da dighe è rimasto alto anche negli anni successivi. Solo in Italia e dintorni, nonostante il Collegio degli Ingegneri e Architetti di Milano, riunitosi dopo l’accaduto, avesse definito il disastro del Gleno «un fatto assolutamente eccezionale, unico e irripetibile», si sono verificate almeno altre quattro vicende simili.

Nel 1935, il crollo della diga del Molare a Sella Zerbino, in cui 30 milioni di metri cubi di acqua causarono un centinaio di vittime. Nel 1959, il crollo della diga Malpasset in Francia meridionale, con un conteggio di 400 vittime. Nel 1963, la celeberrima e tragica frana del Vajont, che arrivò a causare oltre duemila vittime. Nel 1985, il crollo dei bacini minerari di Stava, in cui 180 mila metri cubi di acqua e fango causarono quasi 300 vittime.

Nel mondo esistono oltre 900 mila dighe e il loro impatto ambientale non si limita ai potenziali disastri causati da un crollo. Un esempio su tutti è la diga delle Tre Gole, la più grande struttura del genere mai realizzata, completata in Cina nel 2006. Oltre ad aver sommerso più di 1.300 siti di interesse archeologico, 13 città, 140 paesi e 1.352 villaggi e aver forzato il trasferimento di circa 1,2 milioni di abitanti, la diga delle Tre Gole ha distrutto l’habitat di migliaia di specie animali e vegetali. Negli Stati Uniti, al contrario, complice una crescente sensibilità sul tema, si sta iniziando a demolire alcuni sbarramenti costruiti negli anni Ottanta, giudicati a posteriori troppo compromettenti per l’impatto su alcune specie di pesci, come per esempio il salmone.

Un simile ragionamento è amplificato se si considerano solo le «grandi dighe», così definite se hanno uno sbarramento di altezza superiore a 15 metri o un serbatoio di volume superiore a un milione di metri cubi di acqua (la diga del Gleno superava di gran lunga queste soglie). Nel mondo ce ne sono più di 40 mila, in Italia 532, di cui 21 in provincia di Bergamo. Le grandi dighe generano circa 1/6 dell’energia elettrica consumata e irrigano 1/7 dei campi agricoli nel mondo, ma allo stesso tempo peggiorano in modo significativo il sistema naturale dei processi fluviali, perché ne modificano l’idrologia e danneggiano l’equilibrio ecologico.

Secondo l’Interamerican Association for Environmental Defense, inoltre, la loro costruzione e operatività provoca il rilascio, in particolare nelle regioni tropicali, di anidride carbonica e metano, derivante dalla grande quantità di materiale organico in decomposizione che si trova nei loro serbatoi. Sono inefficaci in caso di siccità e poco sicure in caso di alluvioni, il che aggrava il rischio di disastri. Inoltre, causano danni ambientali ai fiumi, ai bacini idrologici e agli ecosistemi circostanti, tra cui il peggioramento della qualità dell’acqua nei fiumi, il degrado degli ecosistemi acquatici e la scomparsa di molti ecosistemi ripariali, oltre a gravi danni alla biodiversità, tra cui l’estinzione di molte specie. Senza contare l’effetto disastroso sulle comunità circostanti: hanno in più occasioni provocato sfollamenti forzati, ripercussioni sulla salute, compromissione di modi di vita tradizionali, impoverimento delle comunità e criminalizzazione della protesta sociale.

Che il centenario del Gleno sia l’occasione buona per ripensare l’approccio adottato finora?

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