In un’epoca in cui il concetto di «bosco urbano» diventa sempre più attuale, il Parco dei Colli di Bergamo si presenta come un esempio di armonia tra natura e città. Un mosaico di prati, boschi e antichi sentieri che raccontano una storia secolare, fatta di vita contadina, biodiversità e cambiamenti spesso invisibili agli occhi dei più.
Per scoprire i segreti di questo territorio, ci siamo affidati alla memoria e all’esperienza di Dante Fumagalli, classe 1939, che sui Colli è nato e cresciuto. In questa seconda tappa del nostro viaggio, partito simbolicamente dal suo giardino (clicca qui per recuperare il primo articolo), ci addentriamo nei boschi che Dante conosce come pochi altri, accompagnati dalle sue parole, tra ricordi, riflessioni e aneddoti. « Il bosco – esordisce Dante – è come una creatura viva. Cambia, cresce, a volte si ammala. Come noi ».
ARM: Il bosco è come uno specchio del tempo. Da bambino cosa rappresentava per lei il bosco?
DF: Il bosco era tutto: gioco, avventura, scuola. Correre tra gli alberi, raccogliere funghi, andare a caccia con i grandi, erano esperienze che insegnavano il rispetto della natura. Era un sapere innato, tramandato senza bisogno di grandi discorsi. Il bosco non era un luogo di evasione o trasgressione, come spesso avviene oggi: era parte integrante della vita quotidiana, un’estensione della casa e dei campi. Ricordo bene quando, ancora piccoli, andavamo a raccogliere porcini: i primi soldini li abbiamo guadagnati proprio così, vendendoli alle vicine di casa. Era una soddisfazione immensa: conquistarci indipendenza con quello che per noi era un gioco.
ARM: Com’era organizzata la vita contadina legata al bosco?
DF: Ogni parte del bosco aveva una funzione precisa. I castagni fornivano frutti e legname per i pali delle viti, le foglie venivano rastrellate per la lettiera degli animali. I rami secchi erano raccolti per il fuoco, e anche le potature seguivano cicli ben precisi. Niente veniva sprecato. La gestione era tale da mantenere stabile l’equilibrio idrogeologico: mai sentito parlare di frane come oggi. La natura e l’uomo si regolavano a vicenda.
ARM: In questi boschi prendeva vita un sistema idrico antichissimo. Ci spiega come funzionava?
DF: Il fontanino, «Ol Funtanì ll’a corna», era una sorgente preziosa: portava acqua fresca tutto l’anno. Da lì partiva un sistema idrico antichissimo – i «vasi» –, che convogliava l’acqua verso Bergamo Alta. I vasi erano mantenuti dai contadini: entravamo nei due piccoli usci per pulire il corso d’acqua, un lavoro faticoso ma indispensabile. Da bambini ci infilavamo lì dentro anche per pescare i gamberi di fiume. È stato un signore, alla mia memoria il signor Mangili, a insegnarci l’arte di andare a gamberi: ci trasmetteva i trucchi con pazienza, e questa trasmissione di sapere tra generazioni era preziosa, un legame invisibile ma fortissimo.
ARM: I gamberi riportano alle sere d’estate di un tempo. Un ricordo legato a questi piccoli crostacei?
DF: Ero una festa. Io e i miei fratelli, armati solo di mani e astuzia, raccoglievamo gamberi tra le pietre. Poi, a sera, si chiudeva la giornata con un gelato da Marianna. Ogni gambero raccolto era un piccolo trionfo. Lì, tra risate e corse nel buio, si creavano legami profondi: non solo tra fratelli, ma tra generazioni, grazie a quei momenti condivisi. Era un’educazione naturale, fatta di complicità e rispetto.
ARM: Come vede oggi il bosco?
DF: Un bosco in difficoltà. L’ailanto ha invaso le aree lasciate degradare dalla robinia. Le specie autoctone soffrono, e la fauna è minacciata dalla sovrappopolazione della cornacchia grigia, predatrice di nidiacei. Un bosco lasciato a sé stesso non è un bosco sano: servirebbero interventi mirati, piani di gestione, ma manca sensibilità e anche conoscenza. In questo contesto, anche i nuovi approcci al bosco, come lo sport della mountain bike, dovrebbero essere regolamentati. Non si tratta di vietare, ma di educare e organizzare. Il passaggio delle biciclette può danneggiare il terreno, creare percorsi che alterano l’ecosistema e disturbare la fauna. La montagna, come il bosco, va rispettata e protetta, affinché le persone possano goderne senza compromettere il fragile equilibrio naturale.
ARM: Lei ha avuto anche un capanno da caccia. Che ruolo avevano i roccoli?
DF: Erano molto più di postazioni di caccia: erano osservatori privilegiati della natura. Il vero cacciatore non sparava per divertimento: conosceva il bosco meglio di chiunque, ne rispettava i ritmi e i meccanismi naturali. La caccia era regolamentata, una pratica antica legata alla sopravvivenza e all’equilibrio. Il mio capanno è stato smantellato, ma ho salvato le tavole della torretta, piene di scritte poetiche e pensieri lasciati dai cacciatori di generazioni diverse: un vero archivio di emozioni. Oggi l’edificio si è trasformato in un’abitazione a testimonianza dell’evoluzione inesorabile degli usi e i costumi, ma ciò che non cambia è l’armonia e il rispetto che si deve avere per la natura soprattutto negli interventi architettonici.
ARM: Oggi si parla molto di gestione sostenibile del bosco. Come si concilia con l’eredità contadina?
DF: Con tanta fatica. Gestire un bosco significa tagliare i rovi, mantenere sentieri, proteggere le sorgenti. È un lavoro continuo e costoso, non bastano gli slogan. La vita contadina lo faceva naturalmente, come parte della sopravvivenza quotidiana. Oggi servirebbe riprendere quel modello di cura quotidiana, anche se adattato ai tempi moderni.
ARM: Cosa pensa dei progetti di scuola nel bosco?
DF: Sono ottimi, se ben impostati. I bambini devono vivere la natura, non solo studiarla sui libri. Imparare a riconoscere un castagno da una quercia, capire i ritmi delle stagioni, rispettare un formicaio. Solo così si costruisce il futuro del bosco: facendo esperienza diretta, sporcandosi le mani, stupendosi davanti a una ghianda che germoglia.
ARM: Quanto è cambiato il rapporto delle nuove generazioni con il bosco?
DF: Moltissimo. Oggi, il bosco è spesso visto come uno spazio da sfruttare per il divertimento, ma senza la consapevolezza che solo conoscendolo davvero possiamo apprezzarlo. Si perde il senso di appartenenza, e a volte ci sono atti di vandalismo o incuria. Quello che manca è un’educazione profonda, radicata nell’esperienza diretta. Imparare a sentire il proprio corpo nel bosco, a percepire il suo ritmo, a sentirsi parte di un ecosistema che funziona grazie a un delicato equilibrio. Non si tratta di essere i “custodi” da un punto di vista esterno, ma parte integrante di una rete naturale che ci comprende e ci nutre.
ARM: Quali specie sono scomparse dai Colli di Bergamo?
DF: Tante specie sono scomparse. L’erica, le fragoline, i mirtilli del sottobosco. Gli scoiattoli rossi, ormai sterminati dalle cornacchie grigie che competono per il cibo e distruggono i nidi. Anche uccelli come i cardellini, i fringuelli e perfino le rondini sono diventati sempre più rari. Questa perdita, seppur silenziosa, ha un impatto devastante sull’intero ecosistema. La biodiversità non è un lusso né un elemento accessorio: è la condizione fondamentale per la stabilità e la resilienza di ogni ambiente naturale. Quando scompaiono queste specie, non si perde solo la bellezza del paesaggio, ma anche il fragile equilibrio che sostiene la vita stessa.
ARM: Se potesse dare un consiglio a chi ama il bosco, quale sarebbe?
DF: Guardatelo con occhi nuovi. Non bastano le belle parole. Servono gesti concreti: pulire un sentiero, estirpare un ailanto, piantare un castagno. Il bosco è fatica, pazienza, amore. Non si improvvisa.
La memoria come radice del futuro
Parlare con Dante Fumagalli significa toccare con mano una sapienza fatta di osservazione, esperienza e amore sincero per la propria terra. Nei suoi racconti si percepisce tutta la ricchezza di una cultura contadina che ha saputo vivere in equilibrio con il bosco, rispettandone i ritmi e i doni.
Oggi, mentre nuove sfide come l’invasione dell’ailanto, la scomparsa delle specie autoctone e la pressione urbanistica minacciano l’equilibrio dei Colli di Bergamo, lo suo sguardo appassionato di Fumagalli ci ricorda quanto sia urgente recuperare questo patrimonio di conoscenza e rispetto. La memoria di chi, come Dante, ha vissuto i boschi come una scuola di vita, può diventare la bussola per orientare le scelte future. E forse, educando le nuove generazioni a camminare tra gli alberi con occhi attenti e cuore aperto. « Il bosco è fatica, pazienza, amore. Non si improvvisa », conclude Dante, mentre il sole cala dietro i castagni antichi, testimoni silenziosi di una storia ancora tutta da scrivere.