Quando ero piccola, il Natale non aveva bisogno di essere green: lo era già, in modo spontaneo. Nelle case del piccolo borgo incastonato tra le Orobie in cui sono cresciuta, Valbondione, il profumo delle feste iniziava molto prima delle luci: bastavano una stufa accesa e una manciata di bucce di mandarino lasciate a seccare sulla piastra. L’aroma caldo e speziato che emanavano in tutta la casa è sempre stato per me il profumo dell’inverno. Una volta consumate e seccate, si univano ai gusci di noci svuotati dei gherigli: le usavamo come esca per accendere il fuoco. Un ciclo completo, zero sprechi: eppure oggi lo chiameremmo riuso ecocompatibile.
Le cucine, man mano che le feste si avvicinavano, si animavano lentamente. Il pranzo di Natale spesso funzionava – e funziona ancora! – come una «microfiera» della generosità: ognuno portava qualcosa, e il risultato era un menu condiviso, spontaneamente solidale. Alla fine, l’aggiunta segreta della nonna: il pa bù , il pane buono, soffici pagnotte dolci e calde, senza pretese, che però non hanno mai nemmeno fatto in tempo a raffreddarsi prima di volatilizzarsi.
Fuori dalla chiesa, nelle varie messe del periodo natalizio, le torte vendute per beneficenza raccontavano un altro modo di vivere la comunità: niente grandi raccolte fondi, solo teglie preparate in casa, consegnate con orgoglio. E nelle case il presepe, abbellito con il muschio raccolto nel bosco, seguendo una regola non scritta: prendere poco, rispettare tutto. E poi ancora miele a chilometro zero, marmellate fatte in case, le verdure dell’orto in salamoia o sott’aceto: tanti altri modi semplici di vivere un Natale più lento e autentico. Un Natale che profuma di legna, agrumi, dolci casalinghi. E di un equilibrio con la natura che, forse senza saperlo, abbiamo sempre avuto.
