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Un caffè nelle Officine Condor. La filosofia (del legno) di Lucio Bosio

Articolo. Dopo una laurea in filosofia e più di vent’anni trascorsi nel mondo del sociale, Lucio Bosio ha intrapreso una strada che l’ha portato ad essere fabbro e falegname. A Gandino, nel suo “scannatoio poietico”, realizza tavoli, librerie e mensole su misura. Mobili che possano raccontare la storia di chi li acquista

Lettura 5 min.
Lucio Bosio con il seggiolino della vecchia seggiovia del Monte Farno

Non amo le stradine in discesa, soprattutto se mi tocca parcheggiare. Per questo, prima ancora di presentarmi ufficialmente a Lucio Bosio, gli porgo le chiavi della macchina: «Ci pensi tu?». Sorride, probabilmente capita spesso.

Io e Lucio ci siamo scambiati qualche mail, prima del nostro incontro: «Tu porta un giaccone e una sciarpa, le tazzine per il caffè le metto io». Abbiamo entrambi mantenuto la promessa: a Gandino fa freddo, ma sopra un tronco d’albero mi aspettano due tazzine e una caffettiera blu, pronta a gorgogliare sulla stufa a legna. «Benvenuta nelle Officine Condor» mi dice il padrone di casa, gli occhi chiari e la giacca macchiata di vernice.

Non avrebbe mai potuto chiamarla «officina», al singolare. Servono almeno tre stanze per disporre comodamente due flipper, una parete da arrampicata, una macchina da scrivere, un vecchio telefono con cornetta e rotella, due ancore di ferro. E soprattutto i macchinari con cui Lucio realizza mobili su misura per interno ed esterno: dai tavoli, la passione più grande, alle librerie. E ancora armadi, mensole, taglieri.

Quarantacinque anni, nativo di Leffe, da bambino avrebbe voluto fare l’archeologo. Poi la vita ha preso rami tutti suoi. «Al liceo conosco la persona che mi sono reso conto aver cambiato tutto: il mio professore di filosofia, Fulvio Manara». Lucio si iscrive alla facoltà di Filosofia della Statale di Milano, fa per un anno l’obiettore civile, si affaccia al mondo del sociale. «Ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’educazione quando avevo circa ventun anni. Ho passato in rassegna qualsiasi tipo di servizio, a partire dall’assistenza scolastica, residenze per persone disabili, minori. E poi, accanto a queste attività, nel 2014 ho chiesto a mio padre, che aveva uno spazio a disposizione, la possibilità di metterci dentro qualche attrezzo». La passione per le attività manuali in realtà, ha origini ancor più lontane: «Mio padre era appassionato di motori, io invece sono sempre stato uno smanettone: fin da piccolo attaccavo oggetti in camera, decoravo, costruivo. Capivo che mi piaceva».

C’era una volta, sul Farno

Mentre la legna fresca scoppietta nella stufa e al caffè accompagniamo qualche dolcetto zuccherato, mi guardo attorno. Vorrei sedermi sul seggiolino all’ingresso da cui è cominciato tutto: il seggiolino della vecchia seggiovia che fino agli anni Settanta aveva collegato la frazione di Barzizza alla cima del monte Farno. A Lucio sono sempre piaciute le cose grandi, anche quelle più grandi di lui. «Nel luglio del 2014 faccio cadere a terra un traliccio. Allora non avevo ancora le competenze necessarie. Un conto è giocare con un avvitatore, mettere due viti nel legno, e un conto invece è trafficare con un peso di tonnellate. Avevo a disposizione un muletto, per cui sono andato dal mio fabbro di riferimento e gli ho detto: “Come si fa?”. Mi ha invitato a prendere scarpe antinfortunistiche, occhiali, guanti, un flessibile… e tanta buona fortuna».

Lucio ride mentre ricorda l’impresa che più porta nel cuore e non ha ancora compiuto del tutto: «Ho portato il palo in laboratorio con l’intento di lavorarlo e quindi smontarlo, tagliarlo, saldarlo, per poi produrre degli oggetti che perpetuassero la memoria storica di quei luoghi, rimettendoli sul territorio da cui arrivavano. Adesso mi manca proprio l’ultimo step: vorrei restituire queste opere alla comunità, magari – e qua sogno a occhi aperti – all’interno di un workshop in cui concorrano più menti pensanti, dall’antropologo all’artigiano, dal sociologo all’architetto». L’obiettivo del progetto è ambizioso: valorizzare un manufatto della storia della Val Gandino, esempio di una tecnologia avanzata unica in Lombardia, ma soprattutto accendere una luce su quella dimensione di gioco, di festa, «pupazzi di neve», che chi sui seggiolini ci è salito ricorda ancora.

Fabbro e falegname

Lucio è un fiume in piena mentre racconta come negli anni sia riuscito a trasformare una passione in professione. La competenza, nel mondo del legno e del ferro, la acquisisce a poco a poco, grazie all’esperienza di alcuni volontari in cooperativa insieme a lui; seguendo corsi, ma soprattutto sporcandosi le mani. «Sarò eternamente riconoscente a un falegname di Rovetta, disponibile e accogliente, che mi ha portato per cantieri e ha contribuito in modo sostanziale alla mia formazione. Perché vanno bene i corsi, i video su YouTube, ma ciò che più ti forma è la vita reale: chiedere al falegname di turno di portarti con sé e farti vedere».

Nel frattempo, si strumenta. «L’anno scorso sono arrivato ad essere strumentato per un buon 70, 80% delle cose che faccio. Per le cose che non riesco a gestire, o quando devo tagliare a laser, mi rivolgo ad altri professionisti che hanno delle grandi carpenterie da cui mi faccio dare una mano».

Il primo marzo 2020 apre partita IVA. Quel giorno il calendario filosofico – foglietti bianchi da strappare e una massima per giorno – sentenzia: «Farai una cosa che cambierà la tua vita». Lucio si sposta dal primo capannone a quello che ancora lo accoglie, una fabbrica dismessa. Nel maggio 2022 saluta la comunità per cui lavorava. Oggi si dedica principalmente alla sua attività di artigiano, oltre a gestire un laboratorio di falegnameria per ragazzi fragili presso la sede di Clusone del Patronato San Vincenzo. «Volevo, supportato anche dalla mia compagna, capire se questo potesse diventare effettivamente il lavoro primario. Ad oggi cerco di portare avanti un discorso legato all’artigianalità, quindi mi sono scelto un ambito in cui rimanere che è piuttosto di nicchia: lavoro soltanto legno mas sel lo. Mi piace inseguire il tema della storia, della storicità, perché un materiale che ha tanti anni alle spalle ha sempre una storia da raccontare. Magari è una pianta che è rimasta ferma cinquant’anni, però sono sempre cinquant’anni di vita».

Costruire relazioni

Lo ammetto: non conoscevo il significato della parola «piallare». Lucio mi mette alla prova: dispone un asse di rovere sul tavolo, poi mi invita a fare forza e a spingere la pialla lungo il legno, cercando di seguire il senso della vena. Capisco, mentre sotto di me si liberano trucioli che sembrano di carta, perché l’artigiano ha definito le sue officine «scannatoio poietico». «Mi piace immaginare che questo spazio sia una sorta di laboratorio sperimentale. Un luogo dove si sperimentino cose diverse. Commistioni di tecniche, di materiali, robe che… “insomma, proviamo!”». Poi c’è la poiesis, il concetto aristotelico del fare, del creare. Quel fare che conduce alla poesia ed è quasi magico.

Attualmente, Lucio si dedica a progetti che sappiano unire, per quanto possibile, una parte legata alla lavorazione del legno e una invece alla lavorazione della lamiera. Nel frattempo, costruisce relazioni. Commerciali, naturalmente, ma soprattutto e prima di tutto umane. Il caffè in officina è quasi sempre pronto ed è parte integrante del lavoro. «Sono uno che di relazioni ha vissuto e di relazioni vive. Mi piace che le cose che entrano in casa tua, che sia un tagliere, che sia un tavolo, arrivino da un posto che tu hai visto, toccato, respirato».

Ogni progetto comincia da un bisogno e nel bisogno c’è una forte componente fortemente estetica. «Sono un sostenitore del partito “cerchiamo di fare un mobile come piace a te”. Il fatto di avere un momento di relazione in cui ci si scambia dei pareri, in cui mi racconti la tua storia, se vuoi, secondo me è fondamentale, perché poi il mobile te porti a casa tu. In più, il mobile non deve essere dimostrazione della mia perizia tecnica. Io sono uno strumento nelle tue mani. Se devo mettere qualcosa in casa tua, voglio che parli di te, e che in qualche modo ti rimandi a un’emozione, a un ricordo. Quello che vorrei è che il mio manufatto fungesse da veicolo mnemonico, che ti riportasse ad un’esperienza bella, leggera. Uno spigolo vivo, che possa richiamare la montagna, una gamba del tavolo tutta verde, memoria di un pomeriggio al parco».

Dopo un primo scambio, arriva il momento del disegno a software, che l’artigiano, che ha frequentato un corso di progettazione 3D, condivide con il potenziale cliente su Cloud. Non manca un’applicazione con la possibilità di fare dei rendering. Poi arriva il momento del preventivo: se questo viene accettato, si recupera il materiale e ci si dà un termine di scadenza. «Sulla questione scadenza tendo ad essere molto rigoroso. Preferisco avere un lavoro in meno piuttosto che prendere cinque lavori di più e non riuscire a rispettare i termini. In più, quando sono in laboratorio ti mando la fotografia, faccio una storia Instagram, ti taggo… Ti tengo aggiornato, ti rendo partecipe. C’è poi un lavoro, non riconosciuto del tutto, che è un lavoro che qualsiasi tipo di artigiano o di imprenditore secondo me si porta a casa: anche quando sei a letto pensi e ripensi al progetto, al problema, alla commessa… è un lavoro immersivo».

Quando Lucio finalmente si addormenta, sogna. Il nome del suo laboratorio è nato così: un’ambientazione post apocalittica, vista confusamente nella notte dopo aver preso sonno. Una nave mezza sfasciata, senza marinai, in arrivo in una darsena coperta, piuttosto tetra. Sulla banchina un’insegna fatta a neon, di colore rosa: «Officine Condor».

L’immagine è inquietante, rivelo al mio interlocutore prima di salutarlo. Poi guardo il disegno colorato che Nina, la figlia settenne, ha regalato al padre. Le ruote della seggiovia che potranno (spero presto) tornare sul Farno in veste nuova, le fiammelle della vecchia stufa.

E mi dico che per una volta, per fortuna, la realtà è più bella della fantasia.

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