La strada giusta non è facile da incrociare, nemmeno nel mondo dello sport dove spesso il talento emerge sin da bambini. Tuttavia non bisogna disperare, anzi, spesso e volentieri è consigliato provare più volte prima di indirizzarsi verso la meta. Ce lo insegna Silvia Turani, ventinovenne di Grumello del Monte tra le rugbiste più note in Italia che, prima di diventare un punto fermo della Nazionale di Fabio Roselli, ha dovuto compiere una serie di tentativi sino ad approdare in Inghilterra, là dove il rugby a 15 è letteralmente una religione.
«Da quando avevo cinque-sei anni fino alle medie ho giocato a basket per poi provare una serie di sport come tennis, equitazione, sci. Poi mi sono spostata su palestra e yoga. Chiaramente ho vissuto il basket un po’ come un divertimento, visto che ero una bambina, e l’ho fatto principalmente come minibasket, motivo per cui non l’ho mai preso seriamente – racconta il pilone (un giocatore della prima linea, posizionato ai lati del tallonatore nella mischia, ndr) delle Harlequins, la squadra di Londra in cui milita Silvia – Il rugby è entrato nella mia vita quando mi sono trovata all’università e, durante l’Erasmus in Spagna, ho partecipato a una festa di compleanno dove erano presenti alcune ragazze che praticavano questo sport. Mi sono incuriosita e ho partecipato con loro a un allenamento e poi a un torneo di fine stagione. Tornando in Italia e studiando a Parma, mi hanno segnalato la squadra di Colorno, dove mi sono proposta. La prova è andata subito bene e da lì ho iniziato a giocare costantemente all’età di ventidue anni».
Un amore che è sbocciato immediatamente e che ha consentito a Silvia di diventare a tutti gli effetti una campionessa, soprattutto grazie a quel legame che solo uno sport di squadra sa offrire. Provenendo da sport individuali, l’atleta orobica è rimasta affascinata da quell’unione che si può provare soltanto nel rugby, decidendo di investire totalmente in questo sport nonostante una serie di inconvenienti, come i placcaggi e gli infortuni che fanno parte del gioco. «Se si eccettua la struttura fisica che chiaramente è diversa rispetto a quella dei colleghi maschi, le regole tra competizioni maschili e femminili sono pressoché le stesse. I placcaggi sono sempre placcaggi, gli avanzamenti rimangono degli avanzamenti, così come mischie, touche o drive, quindi è proprio una questione di masse che si scontrano – sottolinea Turani – Quando ho iniziato, mio fratello faceva già rugby da un paio d’anni, per cui più o meno in famiglia sapevano di cosa si trattasse. La più spaventata era mia madre che aveva il terrore potessi farmi male, così ha indetto una riunione familiare per chiederci di interrompere entrambe questa esperienza. Ciò non ci ha fermati e adesso mia madre, quando viene a vedere le partite, si presenta sempre con la “Settimana Enigmistica” e durante la partita si concentra su cruciverba, quiz e rebus».
Iniziare a ventidue anni uno sport può essere tutt’altro che facile considerando anche il fatto che le altre giocatrici si conoscevano già da tempo. Il rugby è però uno sport «particolare», in cui l’unione della squadra rimane uno dei fondamenti più importanti da perseguire. «Le ragazze sono state abbastanza accoglienti, anche se ovviamente avevano un po’ il timore che fossi l’ennesima giocatrice che, da “anziana”, decidessi di iniziare facendo perdere loro tempo per imparare – spiega la giovane bergamasca – In realtà ho dimostrato immediatamente loro che avrei preso questo impegno sul serio e, per questo, sono riuscita a imparare subito quello che non sapevo. Questo atteggiamento ha conquistato il rispetto delle altre ragazze e mi ha permetto di vivere al meglio le dinamiche di squadra. Da Colorno sono passata subito alla Nazionale e poi sono approdata in Francia e in Inghilterra. Ho conosciuto molte persone a livello mondiale e queste esperienze mi hanno fatto crescere dal punto di vista personale».
Se a Colorno Silvia ha incontrato un ambiente sin da subito accogliente, lo stesso non si può dire effettivamente per quanto le ha riservato l’esterno. Non tanto in Inghilterra, ma in Italia, dove a volte i luoghi comuni sono duri a morire. A maggior ragione quando le discriminazioni e le parole fuori luogo provengono dallo stesso ambiente della palla ovale. «Un odio nei confronti di una donna che gioca a rugby direi di no, anzi. Vedo infatti una certa ammirazione da parte di coloro che sono fuori da questo mondo, soprattutto in Inghilterra, ma a volte anche in Italia – precisa Silvia – Ho percepito però una discriminazione da parte di persone vicine a questa disciplina, spesso legate al rugby maschile, che manifestano derisione nei confronti del mondo femminile».
Ciò che Silvia sognerebbe è che il rugby possa fare dei passi in avanti anche a livello di organizzazione, con l’Italia che ha ancora molto da imparare rispetto all’Inghilterra. Non solo da un punto di vista agonistico, dove il movimento della palla ovale deve fare ancora vari passi in avanti per essere all’altezza delle avversarie, ma soprattutto a livello culturale, permettendo alle atlete di giocarsi le proprie carte senza dover mettere da parte i sogni legata alla famiglia. «La differenza tra i due Paesi è abissale. In Inghilterra il rugby è uno sport nazionale, praticato anche a scuola nell’ora di educazione fisica e all’università, dove ci sono dei club che sarebbero forti come quelli del nostro campionato di Serie A. In Inghilterra c’è poi probabilmente il campionato più importante del mondo, con una federazione molto più strutturata rispetto alla nostra. Per migliorare, in Italia servirebbero nuove squadre e un miglioramento dal punto di vista contrattuale per le atlete, con tutele, convenzioni, maternità e figure di professionisti a seguito dei team », spiega con rammarico l’atleta di Grumello del Monte.
Dopo aver disputato l’ultimo «Sei Nazioni» femminile – il torneo internazionale di rugby a 15 femminile, omologo del più antico torneo maschile del «Sei Nazioni» – e aver riportato l’Italia fra le prime dieci nazionali al mondo, Silvia Turani si prepara a inseguire nuovi traguardi, anche se per ora le Olimpiadi non sembrano essere nel mirino. «Si giocherebbe a 7 e non ho intenzione di spostarmi su quella disciplina perché non credo di avere le caratteristiche fisiche giuste. A Los Angeles 2028 difficilmente saremo presenti – conclude la rugbista orobica – Il mio sogno è di poter giocare finché voglio, senza che qualche infortunio mi freni, e di farlo sempre con l’entusiasmo giusto. Inoltre vorrei che le atlete possano avere tutte le tutele possibili: solo così le prossime generazioni potranno vivere meglio il nostro sport».