93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Maternità e lavoro a Bergamo: la discriminazione raccontata dai dati

Articolo. «Per essere una lavoratrice non posso essere mamma e per essere mamma non posso essere una lavoratrice». La parola alle madri bergamasche, protagoniste della ricerca «Maternità, discriminazioni e lavoro: una prima analisi sulla provincia di Bergamo»

Lettura 6 min.

La situazione delle madri lavoratrici a Bergamo riflette le stesse criticità generali italiane, ma con qualche particolarità. La consigliera di parità della Provincia di Bergamo ha commissionato ad ADAPT (associazione di studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro fondata da Marco Biagi) la ricerca «Maternità, discriminazioni e lavoro: una prima analisi sulla provincia di Bergamo», che è stata presentata alla Fiera dei Librai insieme al percorso sulla parità di genere promosso in questi mesi da Eppen.

All’interno della ricerca ADAPT troviamo sia una parte di analisi, sia i risultati emersi da una prima indagine sul campo volta a raccogliere la percezione di un gruppo di madri della provincia di Bergamo che hanno rassegnato le dimissioni durante il periodo protetto (gravidanza e primi tre anni di vita del bambino). «Lo scopo è affrontare con decisione il tema del lavoro e delle discriminazioni subite dalle madri lavoratrici – spiega Miriam Campana, avvocata e consigliera di parità della Provincia di Bergamo, entrata in carica la scorsa estate – L’idea è che la ricerca diventi un Osservatorio permanente su questi temi».

Considerato lo scopo di questa prima indagine, attraverso tecniche di indagine qualitative, si è posta l’attenzione sulle esperienze e percezioni delle protagoniste con l’obiettivo di cogliere tutti gli aspetti problematici e strutturali della condizione di madri-lavoratrici in provincia di Bergamo a partire dal loro vissuto.

Cala la disoccupazione, ma è alto il numero delle bergamasche inattive

I dati analizzati nella ricerca mostrano che il tasso di occupazione femminile in provincia di Bergamo (15-64 anni) era pari al 57,4%, superiore al tasso nazionale (52,5%) ma inferiore a quello registrato nelle altre province lombarde tranne Brescia.

A questo dato, però, si accompagna un tasso di inattività di 10 punti percentuali più alto che a Milano. Nel 2023, il tasso di inattività femminile della provincia di Bergamo è di 40,3% (fa peggio solo Brescia con 40,8%), mentre il dato milanese è del (30,7%) e quello di Monza e della Brianza 31,3% (la media italiana è 42,3%). Ciò vuol dire che un’ampia fetta di donne tra i 15 e i 64 anni non lavora e non è in cerca di una occupazione, mentre il tasso di inattività maschile è di 20 punti percentuali inferiore.

A cosa è dovuto questo dato? «Il mercato del lavoro bergamasco, al di là della crisi, è molto florido quindi ipoteticamente queste donne inattive il lavoro potrebbero cercarlo. Quello che viene meno non è il posto di lavoro, ma le condizioni per lavorare, con contesti ostili alle esigenze di una lavoratrice madre. Le dimissioni portano facilmente, nel lungo periodo, alla inattività», spiega Stefania Negri, ricercatrice ADAPT.

Esaminando il tasso di inattività scorporato per classi di età, vediamo che fra i giovani della fascia 15-24 anni non ci sono sostanziali differenze fra i due sessi, mentre c’è uno scarto importante nella fascia 24-34 anni, (con il 32,6% di donne inattive e il 9,1% di uomini) che coincide con l’età media in cui si fa il primo figlio (oggi 31,3). Il tasso di inattività arriva al 51,4% nelle donne 55-64 anni, occupate in altre esigenze di cura legate alla famiglia (nipoti e genitori o suoceri anziani).

Dimissioni “volontarie”?

Il fenomeno delle dimissioni nel periodo protetto è da sempre diffuso nel mercato del lavoro nazionale. A Bergamo si tratta di un aumento costante: erano 290 le neo madri a lasciare volontariamente il lavoro nel 2019, 471 nel 2012, nel 2023 sono state 661. Aspetto interessante, questo fenomeno sembra cominciare a riguardare anche gli uomini: nel 2019 si sono dimessi 5 padri, ma nel 2023 sono 99.

Per indagare il fenomeno delle dimissioni nel periodo protetto è stato realizzato un focus group con un gruppo di madri bergamasche che hanno rassegnato le dimissioni durante il periodo protetto, chiedendo direttamente a loro quali sono gli ostacoli che hanno impedito loro di continuare a lavorare. Rassegnare le dimissioni è stata descritta come una condizione obbligata e priva di alternative derivante da una pluralità di fattori contestuali, culturali, sociali ed economici.

Riportiamo le loro parole:

«Ho dovuto scegliere di abbandonare il posto di lavoro per poter crescere la bambina, e d’accordo ovviamente con mio marito, abbiamo fatto questa scelta però è stata una scelta obbligata nel senso non c’era altra scelta che andava fatta e quindi ripeto abbiamo preso questa decisione. Invece, con un pochino in più di disponibilità e flessibilità si potevano portare avanti entrambe le cose».

«Ho lasciato il lavoro per l’incompatibilità che c’è tra la vita da mamma e la vita lavorativa, perlomeno con la vita lavorativa che avevo prima».

«Mi sono trovata proprio a un bivio dove dicevo “ok, per essere una lavoratrice non posso essere mamma e per essere mamma non posso essere una lavoratrice”. E poi con l’appoggio ovviamente di tutta la famiglia e soprattutto di mio marito abbiamo deciso per una strada piuttosto che un’altra».

Condizioni di lavoro ostili

Tra le principali cause che hanno portato le donne a lasciare il proprio lavoro emerge una scarsa flessibilità e comprensione da parte dei datori di lavoro che, in alcuni casi, hanno costruito un vero e proprio clima ostile ed escludente:

«Quando ho comunicato la maternità non mi è più stata rivolta la parola per un mese, se non per dirmi “fai questo e fai quello” (…) a livello relazionale è stata dura sono sincera, lui si è proprio indispettito e il rapporto si è incrinato».

«io quando ho detto al mio titolare che aspettavo un bambino dire che è sbiancato è dire poco… proprio non se lo aspettava. Mi è capitato che mi dicessero “chi te l’ha fatto fare? Alla tua età poi? Ormai lasciavi perdere”».

In alcuni casi le madri hanno sperimentato un cambio di atteggiamento nella valutazione del proprio lavoro dopo aver comunicato lo stato di gravidanza. A questo si aggiungono: negazione del passaggio al part-time o della possibilità di smart working per qualche giorno la settimana, in un caso anche negazione del permesso di allattamento.

Un’altra motivazione che ha determinato le dimissioni per alcune delle partecipanti è l’arrivo del secondo figlio. Questa causa è in linea con quanto, da anni, documentano i dati sul mercato del lavoro che mostrano come all’aumentare del numero dei figli, diminuisce anche il tasso di occupazione femminile.

Dove sono gli asili nido?

La scarsa disponibilità degli asili nido è una delle cause che ha portato le madri bergamasche a rassegnare le dimissioni. «Secondo i dati Istat, in provincia di Bergamo, nel 2022 erano attivi 202 asili nido pubblici e 150 privati. 123 Comuni non hanno asili nido. Ad esempio, considerano il territorio della Valle Imagna, su 15 Comuni ci sono solo 4 asili nido, di cui 3 privati», enumera Stefania Negri, ricercatrice ADAPT.

Molte le donne, compresa chi scrive, che hanno provato ad iscrivere il figlio all’asilo nido, ma non hanno trovato posto. Raccontano le protagoniste del focus group:

«mi sono mossa tardi a cercare un asilo per mio figlio, cioè quando è nato… non pensando che praticamente da quando sono rimasta incinta mi sarei dovuta mettere a cercare un asilo perché è impossibile trovare un posto. È veramente allucinante».

«purtroppo, nel mio paese il nido è solo uno e privato. La richiesta è alta e le disponibilità poche».

Anche i prezzi dei nidi sono un forte deterrente:

«se uno stipendio di base ad oggi è 1.000/1.2000 euro un nido per un bambino non mi può costare 800 euro perché sennò tutte le donne sono quasi costrette ad abbandonare il mondo del lavoro. Cioè ora capisco perché molti miei amici e conoscenti non fanno figli… perché giustamente dicono “devo scegliere cosa fare, se fare la mamma oppure la lavoratrice”».

La scarsa presenza di servizi per la prima infanzia è uno dei limiti alla libertà di scelta delle madri che, in assenza di altre alternative (nonni lontani, o non ancora in pensione, o troppo vecchi e con problemi di salute) sono costrette a rinunciare al proprio lavoro. In questo modo, si continuano a perpetrare gli squilibri di genere tipici del mercato del lavoro e a rafforzare stereotipi sulla divisione del lavoro di cura. Infatti, dalla maggior parte delle narrazioni emerse dal focus group si è potuto rilevare che prima della nascita del bambino c’era una suddivisione equa dei compiti all’interno delle coppie mentre, dopo le dimissioni sono solo le donne ad occuparsi di tutto ciò che riguarda la cura della casa e dei figli.

Che fare?

Lo scopo della ricerca è capire come intervenire. «La Consigliera di Parità è un pubblico ufficiale, e può ricorrere direttamente al giudice in tutti i casi di discriminazione. Teneteci presente e rivolgetevi a noi», invita Miriam Campana.

Occorre attivare, a livello locale, delle politiche di sostegno alla famiglia e alla genitorialità. Alcuni interventi sarebbero logici, ma richiedono risorse: estendere la maternità obbligatoria, potenziare l’offerta di servizi educativi per la prima infanzia. «C’è poi un tema culturale molto forte, nei momenti di difficoltà si torna indietro e i diritti delle madri sono i primi a essere messi in discussione», commenta Campana. Un’azione che potrebbe supportare la conciliazione vita-lavoro e disincentivare le dimissioni protette è la stipula di accordi territoriali tra le istituzioni locali (comuni e provincia), le istituzioni educative pubbliche e private, gli enti del terzo settore, la Consigliera provinciale di parità, le aziende, i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro per sviluppare e rafforzare la rete dei servizi educativi per la prima infanzia (0-3 anni).

In quest’ottica, questa prima ricerca non rappresenta un mero tentativo di fotografare l’esistente ma si pone in un’ottica evolutiva e propositiva di monitoraggio della condizione delle donne nel mercato del lavoro locale e mira a sviluppare soluzioni condivise tra differenti attori per raggiungere la parità di genere a partire dai contesti lavorativi.

Approfondimenti