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«Possiamo dimenticarci del clima, ma il clima non si dimentica di noi»

«Possiamo dimenticarci del clima, ma il clima non si dimentica di noi»: così il giornalista, scrittore, podcaster napoletano Ferdinando Cotugno, dedito, in particolare, ai temi ambientali, nel suo ultimo libro, «Tempo di ritorno» (Guanda, 2026, pp. 260, euro 18), tenta un esperimento originale: intrecciare, inestricabilmente, la micro-storia sua e della sua famiglia con la macro-storia dell’inquinamento da combustibili fossili e del cambiamento climatico. Stendere una sorta di «biografia fossile» di un gruppo di famiglia che è stato, volente o nolente, implicato in attività altamente inquinanti, se non «tra le più inquinanti che la civiltà umana abbia mai concepito», facendone rappresentante esemplare della crisi climatica. Un’araldica del carbone, del gasolio e dell’acciaio. Il nonno operaio all’Italsider, una vita tra litantrace e coke, il primo ictus mentre manovrava i bracci delle gru di Bagnoli. Il padre, da bambino, nuotatore-raccoglitore delle pepite di coke lasciate cadere in mare da quelle stesse gru, da rivendere poi ai forni, in scala ridotta, delle pizzerie; da adulto, padroncino che ha consumato «un milione» di litri di gasolio. La madre piccola imprenditrice nella stessa, infernale fornace del trasporto su gomma.

Carbone e petrolio

«La mia famiglia è stata una piccola nazione fondata sui combustibili fossili, un minuscolo emirato napoletano del carbone e del petrolio», racconta lo scrittore. Il libro ripercorre, così, anche la dolorosa storia di un’industrializzazione forzata e dirigistica sud-italiana, che ha creato mostri spiaggiati come Bagnoli. Chiese, spiagge, litorali, mare da paradiso turistico: non c’era «bellezza o tratto di costa» che non fosse sacrificabile alla voracità del «cantiere», all’espansione della fabbrica divoratrice di sempre nuovi spazi, dal 1910 alla dismissione definitiva, nel 1990: «il precipizio di una specie che getta le basi per la propria estinzione votandola nei consigli di amministrazione».

Il libro si apre e si chiude con un bagno nel mare di Bagnoli (il cui nome deriva, guarda caso, dal latino «balneum»): del padre undicenne, che, in un’alba nel 1963, infreddolito e impaurito, cerca i pezzi di carbone («il più nocivo dei combustibili fossili») coke pregando di non essere sminuzzato dalle navi da 70mila tonnellate che frequentano quel tratto di mare, nuotando all’ombra di mostri di ferro alti venti metri. E quello del figlio, nel 2024, in quelle stesse acque diventate calde come mai prima, tanto che, dal fuori al dentro, non si sente quasi differenza di temperatura: «non troverò il coke da vendere alle pizzerie, ma sto nuotando nelle sue conseguenze».

Il romanzesco di quartiere

La crisi climatica, spiega Cotugno, «è una storia che accade su una scala temporale e spaziale troppo grande per entrare nelle nostre menti, decisioni, comportamenti. Il romanzesco, l’antropologia di quartiere e le storie familiari servono proprio a riconnetterci (o provare a farlo) con la dimensione personale del cambiamento climatico, provare a trasformarlo in una fotografia nella quale possiamo riconoscerci». Solo così potremo «trasformare la preoccupazione in azione». Perché è verosimile che «la gente capirà e si muoverà solo quando dovrà mettere mano alla tasca».

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