C’è un verso, contenuto ne «I sonetti a Orfeo» di Rilke, che recita così: «Solo colui che anche tra ombre / levò la lira, / può con cuore presago cantare / la lode infinita». Forse, per comprendere appieno « Esploda il respiro che rimane », secondo libro di poesie di Sole Fontanella edito questo mese da Ikonos, si potrebbe partire proprio da qui. La morte, per l’autrice, è infatti carburante per la propria arte e non è opposta alla vita, bensì complementare a essa: ambedue, in un gioco infinito fra cielo e terra, disegnano i confini dell’esistenza. Un’esistenza che nell’opera (composta fra il 2019 e il 2021), assume inesorabilmente tratti autobiografici. «Tendo a ragionare molto e a essere piuttosto sensibile – spiega l’autrice che, alle ore 18 di domani, presso la libreria Incrocio Quarenghi, presenterà la sua nuova raccolta – La somatizzazione, soprattutto in relazione al mio lavoro, è sempre dietro l’angolo».
Classe 1992, nata a Torino da genitori entrambi dottori (che le fanno dono di un nome che, come scrive Luca Barachetti nella prefazione al testo, è «raggio e frescura»), Sole Fontanella, dopo il liceo, si trasferisce a Brescia per studiare Medicina. A Modena intraprende poi la specializzazione in Medicina d’emergenza e urgenza, ma l’ultimo anno lo svolge a Bergamo. «Ho scelto Medicina perché mi sembrava una strada affascinante – racconta la giovane donna che, nel 2018, per Aletti ha pubblicato « OUTIS. Da qui nessuno se ne andrà » – ma mi capita di alternare momenti di contentezza a momenti di profondo sconforto: mi chiedo cosa mi abbia spinto, anni fa, a non optare per un altro corso di laurea. È una professione, la mia, che scava dentro di me e che mi interroga continuamente, sia a causa del dolore e della disperazione che tocco con mano, sia a causa degli errori che ho paura di commettere e che potrebbero avere gravi ripercussioni. Un forte disagio che mi ha portato a soffrire di disturbi dissociativi e che mi ha convinta a non voler fare questo lavoro per il resto della mia vita».
Scrittura, resistenza e resa
Eppure, ricoprire il ruolo di medico di pronto soccorso permette a Fontanella di avere uno sguardo diverso sul mondo. «È questo tipo di professione che mi garantisce una visione più ampia e profonda dell’umanità – afferma la poetessa – È grazie al mio lavoro che riesco a scrivere ed è grazie alla scrittura che riesco a sopravvivere alla crudezza della realtà che vivo».
Un atto di resistenza che si nutre prepotentemente di rabbia. «Quando una persona è continuamente a contatto con situazioni drammatiche, quando vede certe cose, il rischio è quello di andare in tilt – spiega Fontanella – Il risultato è un eccesso di empatia o, al contrario, un eccesso di apatia. La rabbia mi aiuta a proteggermi dal pericolo dello shock: è la mia difesa. Ma la rabbia è anche quella presente nelle mie poesie, quella che mi sale quando noto che la morte è mercificata, ignorata, derisa o rimossa. Penso, però, anche a chi con la morte non ha mai fatto i conti. Mi viene in mente, per esempio, quella volta che una signora di settant’anni, in lacrime, mi chiese di salvare a tutti i costi sua madre: una paziente di più di novant’anni con emorragia cerebrale. C’è un inizio e c’è una fine, ma mi accorgo di come spesso questa consapevolezza sia assente. Allo stesso tempo, non è difficile vedere pazienti che muoiono soli perché i figli non hanno voglia di interrompere la settimana bianca o la vacanza estiva. Una volta esisteva la comunità, una società agricola in cui parlare della morte era normale e rituale. Adesso non lo è più. Due mesi fa, è venuta a mancare mia nonna: io e i miei familiari abbiamo passato gli ultimi giorni con lei. Abbiamo cantato assieme, ma anche letto le pagine del suo diario. Insomma, l’abbiamo accompagnata alla morte cercando di trasmetterle il nostro amore. È una questione di cura: la stessa che uso quando sistemo le salme, cercando di dare ai corpi la grazia e la dignità che meritano».
Fra angoscia e gioia
La poesia di «Esploda il respiro che rimane», innervata da una flebile ironia, presenta un gusto litanico, decadente, vagamente nichilista e, a tratti, espressionista: è lacerante e rabbiosa («Spera / che domani sia migliore / di non avere più terrore dei giorni / che arrancano senza meta / oltre quell’attimo / di apnea.»), incisiva («Vorrei piovesse per sciogliermi / nel fango, per entrarvi dentro e nuotare / la terra, vestirmi d’erba, / finalmente nuda finalmente una.»), musicale («C’è un ragno sulla mia faccia. / Mi guardo lo guardo allo specchio / immobile e nero / tra l’occhio e l’orecchio.»), ma anche materica e crudele come un quadro di Egon Schiele o di Francis Bacon («Che cosa succede? / Mi prende il dolore nel fianco, / sgronda il mio sangue fuori dai vasi, / attorno al surrene.»).
Il linguaggio è pulito, essenziale, quasi spoglio (e per questo luminoso); le immagini evocate, al contrario, pulsano, ribollono, odorano: trasfigurano l’angoscia del deperimento e della fine, gonfiandola, se così si può dire, di un’invisibile quanto accesa gioia di essere («Quel che vedo è un fiorire / nonostante / un grido prima di morire […]».), scevra da qualsiasi tipo di fastidiosa retorica («Intanto apprezzo la vita, / dalla formica alla parrucca / che si sfila quando ti devo visitare.») e macabro feticismo: «[…] perché d’amore e bellezza / bisogna affogare.», ma anche: «Io sono viva tra le macerie.».
Le geometrie entro le quali si muove la poetica di Sole Fontanella (in cui riverbera la lirica di Sylvia Plath, Anna Achmátova, Antonia Pozzi e Alejandra Pizarnik) sono quelle dell’ospedale e del suo vocabolario («Eviscero versi pianti canti / dalla necrosi d’un’ulcera sacrale.»), della natura e delle forze (ctonie e celesti) che la pervadono, ma anche della semplicità e della sua pace («Non voglio con te paradiso. / Voglio una casa.»). Il tema della morte, come già accennato, viene declinato in forme diverse: quella della finitezza umana («Abbiamo dimenticato di essere / poco più che stagioni.»), del suo occultamento («Ritroviamo il nostro posto / nella Storia / (acufene rimosso) / quando giacigli umidi e putridi / si ricoprivano del grido interminabile / degli uomini.») e della sua necessità («Io sono il male necessario / a rendere la vita valore. / Negate il mio esistere ed io nego voi.»).
Vita, morte e poesia
Un ammonimento (contro ogni velleità prometeica) che, nell’ultimo brano, si fa esortazione quasi oraziana: «Fate incanto dei giorni. / Esploda / il respiro che vi resta.».
Ma cos’è questo respiro «che rimane»? «Il respiro “che rimane” è quello agonico che precede la morte – afferma la poetessa – ma, in realtà, è anche l’insieme di tutti i respiri che ci restano a partire da quando nasciamo. È quindi un invito a vivere la vita nella sua irripetibile unicità, un invito a non sprecarla. Questo concetto è ben spiegato nella poesia che conclude la raccolta (che, in un certo senso, riassume l’intera opera): “Atropo”. In Medicina, l’atropina è un farmaco che può uccidere, ma che può anche salvare la vita. Atropo è il nome che do alla morte».
E la relazione che intercorre fra vita e morte e fra quest’ultima e la poesia? «La morte è un traguardo e, per me, è definitiva quanto la vita – dice Fontanella – Tutte e due sono punti fermi nell’universo dell’esistenza e questo lo si capisce davvero quando si rimane incinta. La poesia è un tessuto dalle maglie molto larghe: si nutre dell’epifanie del quotidiano, ma ha poco a che fare con la morte. La morte, infatti, è una condizione preverbale». Tuttavia, il componimento «I.», a pagina 98, pare affermare come lo scopo più autentico dell’esistenza sia proprio quello di dire, di raccontare, e di raccontare quindi anche l’inenarrabile: la morte, attraverso la poesia, muta in canto, facendosi così sigillo e memoria immortale dell’umano. Del resto, come dice Rilke: «Solo nel duplice regno / le voci si fanno / miti ed eterne.».