È domenica 11 febbraio e nei portici della Scuola cinese Yong En a Bergamo si celebra il Capodanno cinese, noto anche come «Festa di Primavera» o «Capodanno lunare». Il calendario tradizionale cinese segue infatti le fasi della Luna, con mesi più corti di quelli solari e con cicli di anni da 12 e 13 mesi alternati. Ad ogni anno, corrisponde poi uno dei 12 animali dello zodiaco (topo, bufalo, tigre, coniglio, drago, serpente, cavallo, capra, scimmia, gallo, cane e maiale), derivati dalla tradizione folcloristica del Gigante asiatico. Il 2024 è l’anno del Drago, considerato nell’antica Cina l’emblema del potere imperiale e quindi simbolo di coraggio, forza e successo, ma anche fortuna, prosperità e abbondanza. Non stupisce quindi che nascere sotto questo segno sia considerato prestigioso e di buon auspicio.
«In Cina, le celebrazioni del Capodanno durano sedici giorni e si concluderanno il 24 febbraio», mi spiega Anna, la referente dell’Associazione culturale Yong En. In questo periodo di festa, le strade della Cina continentale, ma anche di Taiwan, Vietnam e Corea del Sud, si animano di canti, balli, fuochi d’artificio e di tanto rosso – «Hóngsè» –, il colore simbolo di felicità e fortuna. Per l’occasione, centinaia di milioni di persone tornano nei propri villaggi di origine per ritrovi e feste con amici e parenti.
«Il Capodanno è soprattutto il momento per passare del tempo insieme alla propria famiglia – continua la mia interlocutrice, il cui nome cinese è “Ho” – È un segno di unione molto importante per la nostra comunità. Per questo, lo festeggiamo anche qui a Bergamo», continua la referente in un italiano un po’ zoppicante, tanto da dover chiedere a Francesco, un giovane cinese di seconda generazione, di tradurre. Senza fatica, il ragazzo passa dal cinese all’italiano, facendo da “mediatore linguistico” fra le mie domande e le risposte di Anna. Dopo qualche scambio di battute, agevolato da Francesco, io e Anna rimaniamo di nuovo sole. Ci guardiamo e sorridiamo: non ci resta che comunicare in qualche altro modo. Insieme ci dirigiamo verso i banchetti allestiti lungo i portici dell’oratorio delle Grazie.
Nelle varie postazioni si alternano i giochi tipici della tradizione cinese: il «Jianzi» – il cui scopo è fare il maggior numero di palleggi con un “volano” –, il lancio delle frecce e il «Go», un gioco da tavolo di tipo strategico considerato il gioco più antico ancora praticato. Decine di bambini si sfidano, guidati dalle insegnanti della scuola e da alcuni ex studenti: «Ho studiato qui tanti anni per imparare il cinese. Venivo qui alla domenica. È bello mantenere il legame a distanza di tempo», mi racconta uno di loro, vestito con il «changshan», il tipico abito maschile cinese.
Dopo aver constatato la mia totale inettitudine nei confronti dei tipici giochi cinesi, noto che altri ex studenti si trovano nelle vicinanze: alcuni osservano le partite in corso, altri partecipano più attivamente. Così, mi avvicino, incuriosita su quanto sia per loro forte il legame con la Cina - terra d’origine dei genitori - e quanto invece quello con l’Italia e con Bergamo, dove sono nati e cresciuti. Daniele mi risponde convinto: «Nel mio caso, la cultura cinese, quella della mia famiglia e delle mie origini, ha avuto un peso maggiore rispetto all’ambiente in cui sono nato. Io mi sento più cinese che italiano ».
La famiglia, confermano altre testimonianze, ha un ruolo centrale nella vita dei cinesi: è molto comune ritrovarsi tra i parenti per passare del tempo insieme, non solo durante le festività. «I cinesi di prima generazione – specifica Matteo, un altro ex studente –, arrivati in Italia negli anni ’90, sono principalmente provenienti dalla ZheJiang, una regione definita come “terra di contadini e piccoli commercianti”, in cui le parole d’ordine sono “duro lavoro, risparmio e successo economico nell’ambito dell’attività di famiglia”». «Fin da piccoli – continua il ventiseienne –, noi ragazzi della seconda generazione siamo stati abituati ad aiutare nell’attività di famiglia (ristoranti, bar, negozi, etc). Stare tanto tempo con i genitori nelle loro attività imprenditoriali ha rafforzato molto il legame con la cultura, le abitudini e i modi di fare cinesi. Si assimila in modo naturale la cultura di cui i genitori sono portatori». «Per questo – conclude – molti ragazzi IBC (Italian born Chinese) si identificano più nella cultura cinese che in quella italiana, anche se mai al 100%».
L’ascendente dei genitori non è però l’unico fattore a determinare nei giovani di seconda generazione il forte senso di appartenenza verso la comunità cinese: l’ambiente scolastico italiano risulta infatti altrettanto decisivo. « Se la scuola non è accogliente, si tende a cercare conforto tra i propri “simili”, a chiudersi e quindi a sentirsi più cinesi che italiani», racconta un altro ragazzo, ricordando di aver subito episodi di discriminazione alle elementari, quando «non c’erano molti cinesi a Bergamo e quindi le differenze – a partire da quelle fisionomiche – pesavano di più».
In generale, molti concordano che gli stimoli ricevuti durante l’infanzia – fino ai 10, 11, 12 anni – hanno avuto un’influenza maggiore nel plasmare la propria identità rispetto a quelli accolti in seguito. Qualcuno, a proposito, cita anche il ruolo rivestito dai film, dai cartoni animati e dai programmi che si guardavano da piccoli nel processo di identificazione in una cultura piuttosto che nell’altra: «Quando ero piccolo guardavo molti cartoni animati cinesi, poi crescendo sono passato più ai cartoni di lingua italiana», conferma Matteo, che oggi si definisce sia cinese che italiano, «a seconda delle situazioni». Un po’ come lui, anche Kevin – appena diciottenne – preferisce descriversi come «cittadino del mondo», mentre Francesco, quasi a voler riassumere tutto, afferma: «Siamo un po’ incompleti».
Lo scambio con i giovani di seconda generazione mi lascia molte domande. Un po’ pensierosa, ritrovo Anna tra la folla in festa e mi dirigo con lei verso la sala dedicata al cibo, con i tradizionali ravioli al vapore preparati al momento, brodini vegetali e pezzi di carne. «Assaggia, offro io!», insiste Ho, mostrando le piccole monete di rame – chiamate wén – vinte durante i giochi, con cui quel giorno si poteva prendere un piatto.
Ed è proprio in fila per gli involtini primavera che incontro Don Sergio Gamberoni, coordinatore del Centro studi e formazione sulla mobilità umana e intercultura Fileo e direttore dell’Ufficio per la pastorale dei migranti di Bergamo. Mi sembra la persona più adatta con cui condividere le risposte dei giovani di seconda generazione e i dubbi sollevati dalle loro testimonianze.
«Non è un peccato che questi ragazzi, pur essendo nati e cresciuti in Italia, non si sentano italiani, ma cinesi?», chiedo a Don Sergio. «Io sono contento quando un giovane mi dice di sentirsi più cinese, perché significa che ha avuto modo anche qui, a Bergamo, di trovare e coltivare la propria cultura – mi risponde – Ci deve essere un tempo in cui esistere e far esistere la propria cultura, il proprio culto, la propria storia. Solo dopo, ci si può aprire al dialogo e all’incontro, ma prima uno deve esistere. Ci vuole tempo e pazienza, non è facile».
Si avvicina e interviene anche Monsignor Valentino Ottolini, parroco delle Grazie, con in mano un piattino di ravioli fumanti: «all’inizio, nel 2008, quando si è aperta la Scuola Yong En negli spazi dell’oratorio, c’era molta diffidenza reciproca tra i cinesi e i bergamaschi », commenta. «Entrambi mantenevano le distanze. Avevamo incaricato una catechista di contattare i bambini, ma le mamme, quando la vedevano avvicinarsi, li portavano via. Adesso non è più così, si è superato quel sospetto e ora l’oratorio è pieno di questi giovani. Non è facile però, è un dialogo continuo».
Dopo qualche boccone, Anna si avvicina nuovamente per ricondurmi tra i banchetti rimasti, affollati di bambini e genitori. Qualcuno di loro ha le guance colorate dalla scritta rossa «I Love China». Alla fine della mattinata, nel cortile interno della scuola, si raduna un piccolo coro di bambini: qualcuno di loro ha gli occhi a mandorla e porta l’acconciatura tradizionale Hanfu, qualcuno è vestito da Elsa di Frozen. Insieme, intonano le note di «Noter de Berghem». È forse questa l’integrazione?