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La Storia oltre la memoria. A Mozzo un incontro sul dramma delle foibe

Articolo. Giovedì 15 febbraio alle 20.45, il secondo appuntamento del festival «Perché la storia è sempre più complessa di come ci appare» sarà tenuto dal professor Jacopo Perazzoli dell’Università degli Studi di Bergamo, che sottolinea: «Per comprendere i singoli episodi, bisogna prima conoscerne le cause»

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Foiba di Basovizza (bepsy Shutterstock.com)

Retorica, ipocrisia, propaganda: è il prezzo da pagare quando la memoria si limita alla rievocazione (senza mutare in esempio) o, ancor peggio, quando la memoria, non essendo condivisa, genera conflitti e divisioni. In questi casi, l’unica soluzione è affidarsi al giudizio degli storici (e della storia) che, con passione e rigore cercano di portare alla luce la veridicità delle fonti e la complessità dei contesti.

È proprio questo lo spirito che animerà «Violenze nell’Adriatico. Uno sguardo complesso sulle Foibe», secondo appuntamento di «Perché la storia è sempre più complessa di come ci appare», festival organizzato dal Comune e dalla Biblioteca «Sandro Pertini» di Mozzo e curato da Jacopo Perazzoli, ricercatore e docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Lettere, filosofia, comunicazione dell’Università degli Studi di Bergamo.

L’incontro, a ingresso libero, si svolgerà alle 20.45 di giovedì 15 febbraio presso la Sala Civica «Mimmo Boninelli» di Mozzo (via Orobie, 1).

Oltre le banalizzazioni: una divulgazione che tiene conto delle complessità

«L’idea alla base di questa iniziativa è quella di una divulgazione scientifica seria e scrupolosa – afferma il professor Jacopo Perazzoli – che possa essere in linea con il mandato di “terza missione” previsto dalle università e, soprattutto, che possa essere in grado di alimentare il dibattito politico: se non c’è buona divulgazione, infatti, non può esserci un dibattito politico genuino e consapevole». Ma c’è anche dell’altro. «C’è la volontà di superare alcune banalizzazioni che, ciclicamente, riaffiorano nei dibattiti. La storia, soprattutto quella del Novecento, è estremamente complessa: le sue pagine, in particolar modo quelle più oscure, vanno maneggiate con cura e attenzione. Non ci si può soffermare sui singoli episodi, senza prima averne compreso appieno le molteplici cause. A tal proposito, approfitteremo di alcune delle date fondamentali del “calendario civile”, andando ad analizzare anche temi di più stretta attualità, cercando di donar loro profondità e concretezza».

Dopo il primo incontro sulla Shoah, avvenuto il 25 gennaio, venerdì 15 marzo ci sarà «Conflitti a Gaza. Un punto di vista» seguito, mercoledì 24 aprile, da «La Liberazione come fenomeno nazionale» e da «Verso le elezioni americane. Destra o sinistra?», giovedì 3 ottobre. A concludere la kermesse, giovedì 14 novembre, «Fine della Storia. 35 anni dopo la caduta del muro di Berlino».

Contenuti avvincenti, ma anche delicati, che scottano. Come, per l’appunto, quello di giovedì sera. «Io credo che il modo migliore per avvicinarsi al nostro evento sia quello di concentrarsi sul titolo – spiega Perazzoli – ovvero “Violenze nell’Adriatico”. L’infoibamento, infatti, va inserito nel contesto di grande violenza che, già prima del triennio che dal ’43 va al ’45 caratterizzava la zona dell’alto Adriatico. Una zona che, durante la guerra, subisce le azioni di tanti protagonisti diversi: italiani, slavi, tedeschi, fascisti, antifascisti e comunisti: un pot-pourri che ci suggerisce di allargare la nostra prospettiva e di gettare lo sguardo indietro e, per la precisione, all’Impero Asburgico. Già prima del primo conflitto mondiale, infatti, quest’impero registrava cruenti scontri fra la comunità slava e quella italiana. Tensioni che andranno poi ad acuirsi e che, corroborate dai rispettivi nazionalismi, sfoceranno nei cosiddetti “incidenti di Spalato” e, soprattutto, nell’incendio, a Trieste, del Narodni dom».

Storia e memoria: un binomio non sempre perfetto

La matassa è dunque difficile da sciogliere, bisogna saper contestualizzare. Ma anche saper discernere fra emotività e memoria e fra quest’ultima e la storia. «Ho la sensazione che, sempre più spesso, si fa molta confusione fra storia e memoria – dice Perazzoli – Non voglio sottovalutare la brutalità dei partigiani di Tito né, tanto meno, i ricordi (e il dolore) di chi ha vissuto l’esodo giuliano-dalmata (più di 200 mila italiani costretti ad abbandonare la propria casa), ma uno storico deve essere in grado di far un salto di qualità e di farlo a mente fredda, tramite documentazione d’archivio e ricerca: il dramma delle foibe non può essere catalogato come genocidio. Sono state assassinate migliaia di persone ma, sia gli storici che asseriscono che esse siano state trucidate in quanto italiane, sia gli storici che affermano che esse siano state eliminate in quanto fasciste, concordano che non si sia trattato di un genocidio. Manca una progettualità, come nel caso della Shoah. Si pensi, a tal proposito, alla conferenza di Wannsee, in cui si definì la “soluzione finale della questione ebraica”. Poi mancano i numeri: significativi, certo, ma non paragonabili ai sei milioni di ebrei uccisi per mano nazista. I morti delle foibe si aggirano fra le seimila e le diecimila unità».

Ma davvero, a fronte di una barbarie del genere, contano i numeri e non le intenzioni, ovvero quella di ripulire il Carso dalla presenza italiana?

«Penso che, per un’analisi più oggettiva, bisognerebbe guardare i fatti con le lenti del cittadino sloveno –
afferma il professore – che, per vent’anni, ha dovuto subire le violenze fasciste. Se si vede il film “Red Land (Rosso Istria)”, pare che i fascisti siano innocenti, ma i fatti parlano della costruzione, sull’isola di Arbe, del più grande campo di concentramento italiano per slavi».

Per mano titina morirono anche civili, come Norma Cossetto e partigiani, come Angelo Adam . «Norma Cossetto è in realtà una figura discussa, a tratti controversa – spiega Perazzoli – c’è infatti chi la presenta come fascista convinta; la Repubblica Sociale le dedicò pure una brigata. Invece, per quanto riguarda Angelo Adam, antifascista fiumano non comunista, non ho molto da dire: credo sia l’esempio di come la violenza dei partigiani jugoslavi si accanisse non solo contro i fascisti e i rappresentanti più in vista della comunità italiana, ma anche contro chi veniva giudicato potenzialmente dannoso ai fini della realizzazione del nuovo stato socialista. Anche per questo, nonostante fosse sicuramente presente un sentimento anti-italiano rabbioso, “di pancia” (alimentato dal desiderio di vendetta), è pure complicato parlare di pulizia etnica tout-court: dire che gli italiani del Quarnaro, della Venezia Giulia e della Dalmazia siano stati uccisi in quanto italiani significa, semplicemente, fare della retorica. Una retorica da cui il presidente Mattarella si tiene ben lontano».

La sofferenza che diventa patrimonio comune: un’idea di pace

Nel luglio del 2020, in piena pandemia di Covid-19, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno, Borut Pahor, dopo aver deposto una corona di fiori davanti alla foiba di Basovizza (dove, nel ’45, i partigiani jugoslavi scaraventarono duemila italiani), si presero per mano, restando in silenzio per un minuto. Un gesto storico, ripetuto presso il monumento ai caduti sloveni: un cippo, a poca distanza dalla foiba, che ricorda quattro giovani antifascisti slavi fucilati, nel 1930, dalle camicie nere del regime.

«Quello dei due presidenti è stato un segno importante, carico di significati profondi – afferma Perazzoli – La storia, del resto, non si può cancellare, come non si possono cancellare torti e ragioni. Ma la sofferenza deve e può diventare patrimonio comune. È l’unico modo per giungere alla pace e alla riconciliazione. Prima, però, non bisogna aver paura di fermarsi e di fare un passo indietro, setacciando bene il proprio passato e guardando in faccia le proprie responsabilità».

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