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Paola Caridi, «non si può pensare al domani se prima non si ferma la macchina della guerra»

Intervista. Giornalista freelance e storica del Vicino Oriente, Paola Caridi presenterà il suo libro «Hamas. Dalla resistenza al regime» (Feltrinelli, 2009) mercoledì 17 gennaio alle 18 alla Fondazione Serughetti La Porta

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La bandiera di Hamas

Dalla sua fondazione agli attentati del 7 ottobre, passando per il consenso da parte della popolazione palestinese: cosa si nasconde dietro al «mistero Hamas»? Alle ore 18 di mercoledì 17 gennaio, presso la Fondazione Serughetti La Porta, Paola Caridi, giornalista, scrittrice e storica del Vicino Oriente, ne parlerà con Francesco Mazzucotelli (Università di Pavia) e Rosita Poloni (attivista e volontaria di Neve Shalom Wahat al Salam).

Durante la serata, l’autrice presenterà anche il libro « Hamas. Dalla resistenza al regime » che, nel 2023, a seguito dei drammatici eventi della guerra israelo-palestinese, Feltrinelli ha riproposto ai lettori.

FR: Paola Caridi, il suo libro assume quasi i tratti di una parabola: all’inizio si afferma come Hamas non sia un movimento terrorista (bensì un movimento politico che si è avvalso del terrorismo); alla fine, invece, si afferma quanto l’ala militare sia diventata rilevante nel determinare la strategia dell’organizzazione. È questa la grande differenza, inaugurata il 7 ottobre 2023, fra il passato e il presente del Movimento islamico di resistenza?

PC: In parte sì, ma fino a un certo punto. Il movimento della storia, infatti, non è mai a parabola. È un percorso, un processo, a volte imprevedibile e sorprendente. Sicuramente, c’è un prima e un dopo il 7 ottobre, ma non possiamo sapere quel che succederà fra vent’anni.

FR: Perché Hamas ha guadagnato tanto consenso all’interno della società palestinese?

PC: In realtà è bene affermare che, ora come ora, non sappiamo quanto consenso abbia nella Striscia di Gaza: il territorio è attualmente in guerra e sotto assedio. Indubbiamente, invece, è aumentato il consenso in Cisgiordania. E questo, principalmente, è dovuto all’abbassamento del consenso dell’Autorità Nazionale Palestinese: da molti, anche a causa dell’aumento degli insediamenti dei coloni, essa viene tacciata di collaborazionismo col governo israeliano.

FR: Qual è l’obiettivo di Hamas?

PC: Hamas è un movimento nazionale di matrice nazionalista che nasce e agisce all’interno della società palestinese e che, per lo meno formalmente, non riconosce lo stato di Israele. Quest’organizzazione radicale identifica come «Palestina» tutto quello che un tempo è stato il territorio del Mandato britannico, ovvero dal confine con il Libano all’Egitto, dal Mediterraneo al Giordano: un’area, questa, che sostanzialmente si sovrappone a quello che per gli israeliani (soprattutto per coloro che appartengono alle frange della destra) è Israele. Come già accennato, però, dal 7 ottobre abbiamo assistito a un cambio di rotta, causato da sedici anni in cui Gaza, prigione a cielo aperto, è stata sigillata su tre lati: a Nord, Est e Ovest da Israele e a Sud dall’Egitto. In questo periodo, ben quattro guerre hanno preceduto il conflitto del 2023. Probabilmente, con l’operazione «alluvione al-Aqsa» Hamas voleva rompere la marginalizzazione di Gaza nonché allargare il proprio consenso.

FR: Sempre nel suo libro lei afferma che «senza l’analisi della complessità, la comprensione di quello che è successo in Palestina non solo negli ultimi tre anni, ma negli ultimi due decenni semplicemente non è possibile».

PC: Lo ribadisco ancora una volta: il 7 ottobre ha segnato una storica cesura e un punto di non ritorno per Israele. Alcuni dei pilastri sui quali questa nazione si è costituita (in primis, la sicurezza) sono crollati e oggi, ancora, non scorgiamo cosa realmente potrà significare tutto ciò domani, soprattutto a livello di tenuta morale e sociale. Ma parlare dell’offensiva di Hamas non è in contraddizione con il parlare di quel che è successo negli scorsi decenni e, soprattutto, di un’occupazione (quella a opera dei governi israeliani) che dura dal 1967. Un’occupazione che ha inciso profondamente nella trasformazione della società israeliana e palestinese. Quel che manca, a mio avviso, è un grande mea culpa da parte della stampa italiana e occidentale, che non ha narrato in modo esaustivo ogni singola vicenda, andando a generare un grave vuoto informativo. E poi c’è il vuoto della politica. La tragedia a cui stiamo assistendo è frutto di una mancanza totale di politica.

FR: Bombardamenti a tappeto di zone residenziali, distruzione di interi quartieri, migliaia di civili dispersi sotto le macerie dei palazzi, il trasferimento forzato di oltre un milione di palestinesi, un assedio che non garantisce né corridoi umanitari né safe zones: a Gaza, i morti sono ormai più di ventimila (di cui diecimila bambini). Ha senso tutto ciò? L’operato di Israele può essere, in qualche modo, strategicamente e militarmente giustificabile?

PC: Secondo me no. A mio avviso, non c’è una strategia e se la strategia fosse, per caso, quella di espellere i palestinesi (di Gaza e della Cisgiordania) dalla Palestina, Israele diventerebbe uno stato pària all’interno della comunità internazionale. Israele non solo violerebbe gli accordi approvati fino a ora, ma anche il diritto alla vita e alla dignità di quelle persone che dovrebbero vivere nello stato di Palestina.

FR: L’Onu stima che, di tutte le persone che rischiano di morire di fame al mondo, l’80% si trovi a Gaza. Che ne sarà di questo pezzo di mondo?

PC: Chi è stato a Gaza sa bene che quel che sta succedendo in queste ultime settimane significa non solo desertificare un pezzo di terra, ma provare ad annullare una storia che è millenaria. Ovvio che adesso non ci occupiamo della distruzione delle chiese e delle moschee ma, assieme a esse, va in frantumi la memoria e l’identità di un luogo e del suo popolo. Questo è imperdonabile.

FR: Chi, alla fine, si prenderà cura di Gaza dovrà comunque far fronte all’odio della vedova e dell’orfano: l’humus del prossimo 7 ottobre…

PC: Quel che non si comprende, secondo me, è che non si può pensare di bombardare a tappeto Gaza e poi immaginare che qualcun altro si prenderà l’onere di far rinascere questa città dalle macerie. In passato, è già successo che la comunità internazionale si sia dovuta impegnare nella ricostruzione di Gaza, ma questa volta le proporzioni sono diverse. È vergognoso che l’Occidente creda che la questione sia rinviabile a quando ci sarà il «cessate il fuoco». Il «cessate il fuoco» deve avvenire adesso. Solo così si potrà parlare di quello che bisogna fare a Gaza. Non si può pensare al domani se prima non si ferma la macchina della guerra.

FR: Secondo la Repubblica (che cita The Times of Israel), il governo israeliano avrebbe intenzione di incoraggiare l’emigrazione dei cittadini di Gaza, assicurando loro l’accoglienza in altre nazioni (come il Congo). Ci troviamo di fronte a un nuovo «Piano Madagascar»?

PC: Lo si sente ripetere da mesi. Il governo, negli scorsi anni, ha intessuto rapporti con Paesi dell’Africa subsahariana per lì riportarvi i rifugiati sudanesi. Ma i palestinesi non possono essere trattati come dei migranti che escono dal loro Paese per poi tornarci un giorno. Non stiamo parlando di Lampedusa, bensì di un trasferimento di massa forzato di un’intera popolazione al di fuori dei confini della propria casa: un’ipotesi in aperta violazione del diritto internazionale.

FR: Lei, durante la puntata di Otto e mezzo del 3 novembre scorso, ha detto che «non si può aspettare la cancrena per risolvere un problema». Eppure questo conflitto una soluzione la esige. Quale può essere?

PC: Bisogna mostrare lungimiranza, coraggio e fantasia e impiegarle nell’edificazione di due stati. Due stati che, però, devono nascere da un riconoscimento reciproco. La domanda fondamentale è: Israele vuole uno stato di Palestina? In questi decenni, ha dimostrato di non volerlo e Netanyahu lo ha detto pure esplicitamente.

FR: Se si escludono alcune voci coraggiose, come quella del Papa e di António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, il ruolo delle istituzioni europee appare sempre più stanco, secondario, passivo e inadeguato. L’Europa esiste ancora o si è ridotta a un luogo ideale al pari delle tolkieniane Rohan e Gondor?

PC: L’Europa è da tempo che ha perso credibilità e non solo dallo scorso 7 ottobre. L’Europa ha ospitato diaspore curde, iraniane e arabe ed è ancora simbolo dei diritti umani; eppure, è anche luogo di infimi cortocircuiti. Si pensi, per esempio, a Berlino: la comunità araba non può manifestare con la bandiera palestinese perché la politica del governo tedesco è filo-israeliana. Il conflitto israelo-palestinese fa brillare, come una cartina tornasole, proprio la questione dei diritti, non solo quelli degli altri, ma anche quelli europei che da anni, inesorabilmente, vengono erosi.

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