In un gremito Teatro Qoelet di Redona venerdì 8 marzo è andato in scena «Capelli d’argento labbra rosse» che si è distinto come uno spettacolo unico nel suo genere. L’iniziativa ha infatti celebrato le donne attraverso l’arte e la narrazione. L’obiettivo dello spettacolo era duplice: da un lato, riportare in vita le storie e le esperienze delle donne anziane della comunità, dall’altro, rileggere le classiche fiabe in chiave moderna, con un focus particolare sulla resilienza e l’intraprendenza femminile. Il pubblico è stato trasportato in un viaggio emotivo che ha attraversato generazioni, mettendo in luce le sfide e le conquiste delle donne nel corso del tempo. Attraverso l’entrelacement di racconti autentici e narrazioni fiabesche, lo spettacolo ha offerto una riflessione profonda sui temi dell’emancipazione femminile e del ruolo delle donne nella terza età: qual è il messaggio e qual è l’insegnamento che possono trasmetterci?
La scelta di intrecciare le fiabe di Cappuccetto Rosso e Biancaneve con le testimonianze reali ha permesso di creare un dialogo tra il passato e il presente, evidenziando come le storie di coraggio e determinazione femminile siano sempre state parte integrante del tessuto sociale, pur nella loro evoluzione attraverso i secoli. Alla conduzione Micaela Carrara, mentre il ruolo di mediatore culturale è stato affidato a Silvano Petrosino, Professore di Teorie della Comunicazione e Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica di Milano. Il filosofo ha avuto l’onere di spiegare che le fiabe, spesso percepite come narrativa dedicata ai più giovani, affondano le loro radici ben più profondamente nella tradizione orale. Le versioni che oggi conosciamo si devono principalmente al lavoro di Charles Perrault e dei fratelli Grimm, che hanno trascritto queste storie rendendole patrimonio culturale condiviso.
Le fiabe – ha sottolineato sul palco Petrosino - non si limitano a narrare storie. Esse rivelano le dure realtà del divenire, della doppia nascita che caratterizza l’esistenza: veniamo al mondo senza averlo scelto e, attraverso un percorso non deciso da noi, ci trasformiamo in uomini e donne a pieno titolo. La vita, lontana dall’essere un idilliaco cammino tra gli alberi, si rivela spesso un viaggio arduo, disseminato di insidie e sfide. Le storie che finiscono male, le favole che sfociano in tragedie, non sono che metafore del nostro cadere nelle seduzioni dell’ombra, del male che, seppur involontariamente, esercita su di noi un’attrazione fatale. Questi racconti, anziché semplici evasioni dalla realtà, fungono da specchi, riflettendo le complesse verità dell’animo umano e invitandoci a una riflessione profonda sul nostro percorso di vita.
È qui che si sono inserite le narrazioni delle nonne e delle donne grazie al corposo lavoro della regista Silvia Barbieri a cui è stata affidata la drammaturgia e la regia dello spettacolo. Queste 33 donne che vivono in 5 case di riposo della provincia di Bergamo hanno raccontato le loro storie con commozione e divertimento: «Io con la lingua andavo dappertutto, non mio perdevo mai nel bosco», «Mia mamma ha cresciuto da sola tre figlie. Io andavo col cestino da sola a scuola. E tutti i giorni trasportavo la valigia ad un signore per avere la mancia il sabato», oppure ancora «Sono nata nel ’32 in una cascina. Andavo a scuola due chilometri a piedi anche d’inverno con la neve. Andavo dalla nonna a cambiare gli zoccoli, mettevo quelli asciutti e andavo a seguire la lezione».
«Avevo paura. C’era buio dopo le 11 a Villa di Serio, dopo il lavoro, accompagnavamo le nostre amiche per un pezzo di strada e quando arrivavamo dall’altro lato urlavamo per farci sentire “CIAOO”», «Avevo paura degli uomini» sono altri contributi che hanno emozionato il pubblico, così come «Non mi sono accorta di essere con il lupo. Ho sposato uno che si chiamava Lupini», «Disobbedire mi piaceva; mi piaceva andare a ballare. Così, io mandavo avanti la mia gemella e avevo il tempo di scappare».
Ai racconti delle nonne si sono alternati gli attori e le attrici in scena che hanno riproposto delle versioni tradizionali e rivisitate dei racconti Cappuccetto rosso e Biancaneve, con Petrosino che è intervenuto nel passaggio tra un racconto e l’altro per fornire una chiave di lettura. La versione originale, attribuita ai fratelli Grimm, approfondisce il simbolismo di Cappuccetto Rosso come incarnazione del sangue mestruale, della passione e della morte, introducendo un universo simbolico che riflette il trascorrere dall’innocenza infantile all’esperienza della femminilità. In questa interpretazione, Cappuccetto Rosso attraversa un processo di maturazione, simboleggiato dal suo viaggio nel bosco, che è al contempo un percorso di auto-scoperta e di confronto con i piaceri e i pericoli del mondo adulto.
La madre, pur avvertendola di non deviare dal cammino stabilito, può solo assistere impotente alla trasformazione della figlia, che inizia a esplorare esperienze che superano la semplicità e l’innocenza della fanciullezza. «In montagna, si doveva andare con la gonna. Io ho fatto fare i pantaloni di nascosto e li mettevo quando arrivavo su, stando attenta a che nessuno mi vedesse, poi prima di tornare a casa rimettevo su la gonna», «Io e le mie sorelle portavamo i capelli con le trecce, e guai a parlar di scollatura. Poi, non ti dico l’emozione quando finalmente andammo per la prima volta a tagliare i capelli dalla parrucchiera»
«Il rosso mi ricorda l’allegria, il maglione che ho ricevuto per Natale», «Il rosso mi ricorda le rose che mi regalava mio marito, è un colore allegro». E il rosso come le mestruazioni. «Mi operano di appendicite, vedo il lenzuolo con le macchie di sangue. Pensavo fosse una ferita. L’infermiera mi disse che ero diventata signorina. Uno pseudo-trauma», «Non sapevo cosa fosse il ciclo quando è arrivato. E da lì a pochi giorni mi dovevo sposare senza sapere cosa fossero le mestruazioni», «Avevo 14 anni, mi sono spaventata perché lavoravo a Leffe e una signora mi spiegò che ero una donna. Mia mamma non diceva mai niente, era scrupolosa», «Quando sono arrivate, mi sono seduta sulla sella, me ne accorsi perché quando scesi era bagnata» oppure «In quei giorni lì non si potevano toccare i fiori perché appassivano».
Nella variante portata in scena al teatro lo scorso venerdì, è emersa una narrazione in cui il lupo, tradizionalmente simbolo di minaccia e pericolo, si trova ad affrontare una realtà inaspettata: il terrore di Cappuccetto. Contrariamente alle attese, è lei a dominare l’incontro, mordendo il lupo e mangiandosi la focaccia, un gesto che ribalta la dinamica predatore-preda. Questo finale, si allontana dalla concezione tradizionale del male rappresentato dall’uccisione del lupo, suggerendo che il male, una presenza costante nella vita, non possa essere semplicemente eliminato ma debba essere compreso e gestito. Il lupo, quindi, non viene ucciso, metafora del fatto che il male, simboleggiato dalla figura della belva nelle favole, persiste nella vita reale, imponendoci la sfida di tenerlo a bada.
Passiamo poi alla narrazione di Biancaneve, dove la figura della matrigna è stata messa in evidenza con una complessità psicologica che va oltre la semplice invidia per la bellezza. Quello che realmente turba la regina non è tanto la giovinezza o l’aspetto della figliastra, quanto il riconoscimento del passaggio generazionale che vede in lei. La matrigna, che non ha mai avuto figli e sa che non ne avrà mai, si confronta con l’inevitabilità del tempo che passa e con la perdita di qualcosa che non potrà mai più essere suo: la gioventù. Questa dinamica viene brillantemente simboleggiata dallo specchio magico, che le ricorda che, nonostante la sua bellezza, oltre i sette colli c’è chi è destinata a superarla. La matrigna è invasa da un sentimento di invidia, che è diverso dalla gelosia: è la consapevolezza di un bene che prima le apparteneva e che ora le sfugge definitivamente.
Lo specchio, con la sua risposta, non fa che sottolineare la crudele verità con cui la regina deve fare i conti: l’irreversibilità del tempo e il declino inevitabile di ciò che una volta era. Questa presa di coscienza la spinge verso scelte estreme, fino a commissionare l’omicidio di Biancaneve. La narrazione, in questo frangente, capovolge molti valori tradizionalmente assegnati: il bosco e il lago, spesso percepiti come luoghi di pericolo, diventano rifugi e spazi di protezione, un periodo di latenza in cui Biancaneve trova accoglienza presso i nani. In questa fase della storia, la figura maschile non rappresenta più una tentazione ma assume un ruolo di custode e protettore.
Ascoltiamo quindi ancora le nonnine, le vediamo mettersi il rossetto, alcune lo fanno addirittura per la prima volta. Mentre recitano la fatidica domanda «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?», le nonne si immergono nei ricordi della loro gioventù, una stagione della vita curata con attenzione da alcune di loro e trascurata per altre per poco tempo o poca ambizione. Questa riflessione le porta a interrogarsi: a quale età vorrebbero tornare, se potessero? I loro racconti non sono solo di bellezza o vanità, ma intrecciano storie di dolore, di perdita, di dignità sacrificata, di studio e dedizione. Queste memorie si contrappongono vivamente all’immagine della “regina moderna” di oggi, che dedica tempo agli addominali e alla cura del corpo per assecondare un ideale di bellezza.
Le nonne condividono anche storie dei loro amori, episodi che scaldano il cuore per la schiettezza, l’innocenza, l’onesta, la purezza e l’essere senza filtri, quasi come bambini. È la loro capacità di ridere di se stesse, delle proprie esperienze, che affascina e intrattiene, offrendo una prospettiva unica sulla bellezza, quella interiore, che non sfiorisce con il tempo. Forse, il vero senso delle favole è proprio questo: invitare ciascuno di noi a riscoprire il bambino che ancora alberga nel nostro interno. Tutti, almeno una volta nella vita, sono stati bambini, ma solo pochi riescono a conservare vivido il ricordo di quella fase esistenziale, così ricca di meraviglia e scoperta. Così diceva il buon Antoine de Saint-Exupéry.
La storia si chiude con una performance di Martine Bucci, coreografa e performer dai “capelli d’argento” che ha fatto conoscere la danza contemporanea ai bergamaschi e l’ha insegnata per oltre 30 anni. Infine, una poesia canta i segni del tempo, celebrando ogni età per il suo unico contributo al rumore della vita. La quiete e la monotonia appartengono solo a chi non sa ascoltare il frastuono delle esperienze vissute, di ogni caduta e risalita. «Sono contenta della mia vita anche se sono brontolona», «Rivivo le cose belle: mi piace riassumere quello che ho fatto». Concludo questo resoconto con un proverbio che mi ripete mio nonno e che calza a pennello: «A sés agn a m’ sè matèi a sessanta a m’ sè osèi» (A sei anni siamo bambini e a sessanta torniamo a esserlo).
(Tutte le foto sono di Yuri Colleoni)