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Educhiamo i nostri figli per il mondo che c’è o per quello che vorremmo?

Articolo. Da un lato c’è il mondo che vorremmo, dove cooperiamo tutti per il bene comune e nessuno viene lasciato indietro. Dall’altro il mondo com’è: ferocemente competitivo e privo di grosse bussole morali, dove i nostri figli devono essere salvati, spesso a scapito di qualcun altro. A cosa deve tendere la nostra educazione?

Lettura 4 min.

Un giorno mi capitò di perdere completamente il rispetto per un mio conoscente, che si lamentava di come a scuola prendessero in giro suo figlio, perché portava i mocassini: «Gli ho detto che, con quello che costano, nessuno dei suoi compagni di classe può permetterseli!». Mi sembrò la frase più inappropriata da dire per consolare un bimbo che avrà avuto 8 anni, un misto di ottusità e classismo difficile da eguagliare.

Ora la penso allo stesso modo, ma credo anche che sui mocassini avesse ragione lui. Il mondo della moda ha dimostrato come scarpe veramente brutte – e non parlo specificatamente di mocassini – diventino subito belle, o almeno socialmente accettate e desiderate, una volta che costano quanto un mese di affitto. Ma è una legge appropriata da insegnare a un bambino di 8 anni? Quando educhiamo, lo facciamo pensando al mondo com’è o a quello che vorremmo che fosse?

Il mondo che vorremmo e quello che abbiamo

Io vorrei un mondo di Mary Jane e Oxford stringate, invece mi ritrovo in un universo popolato di sneakers col rialzo e babbucce pelose. Cosa insegnare ai figli? Mi viene da dire che è meglio provare a dare la nostra visione alternativa, perché tanto quella “del mondo” la impareranno lo stesso, nostro malgrado.

Adeguarsi è spesso questione di pigrizia e conformismo, mascherato da falso buonsenso: come il genitore che dà in mano lo smartphone al figlio seienne dicendo «Tanto è un nativo digitale, non può stare senza, poi gli amici lo escludono», non sapendo (o fingendo di non sapere) che è esattamente il contrario.

Una versione migliore di noi stessi

I figli ci costringono a dare una versione migliore di noi stessi perché con loro il cinismo e la maleducazione non reggono. Quante volte giudichiamo una persona da come si veste? Io sempre, nel bene e nel male, però dico ai miei figli di non farlo. Suggerisco fermamente il rispetto dell’autorità e delle regole, fingendo che abbiano sempre un senso. I figli mi hanno obbligato a mangiare più sano, ad avere orari più regolari e non dire parolacce, e considero una grande successo che mi riprendano quando mi sfuggono.

I bambini ci costringono inevitabilmente anche a proporre una versione più accettabile del mondo, dove certo ci sono le difficoltà e le ingiustizie, ma tutto si supera: le liti si ricompongono, le malattie guariscono, gli amici si ritrovano. «È vero che tanto alla fine vincono sempre i buoni?» mi chiede mio figlio di 6 anni quando leggo una storia un po’ spaventosa, e io gli dico di sì, perché so che ha bisogno di quell’incentivo per trovare il coraggio di andare avanti.

Competitività e cooperazione

Ma quanto crediamo davvero a questo mondo di buoni sentimenti che dispieghiamo davanti agli occhi dei nostri figli? Molto poco, come diceva già quel genio di Maria Montessori: «Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace». Sapeva bene di cosa parlava, avendo vissuto due guerre mondiali e l’ascesa dei totalitarismi in Europa.

Noi genitori siamo scissi fra due visioni, non tanto conciliabili: da un lato il mondo che vorremmo, dove tutti cooperiamo per il bene comune e nessuno viene lasciato indietro. Dall’altro il mondo com’è: ferocemente competitivo e privo di grosse bussole morali, dove i nostri figli devono essere salvati, spesso a scapito di qualcun altro.

Quando si tratta di bambini piccoli prevale forse la prima concezione di educazione, ma man mano che crescono non vogliamo forse che i nostri figli siano “vincenti”, in grado di farcela, primeggiare, accaparrarsi il biglietto vincente della lotteria?

La scuola

Alla scuola chiediamo tutto e il contrario di tutto. Che prepari bene i nostri figli per renderli “competitivi”, ma anche che educhi alla cooperazione, all’inclusione e, recentemente, pure all’affettività. Vogliamo che nostro figlio sia il primo ad alzare la mano quando il compagno non sa una risposta, ma anche che non sia un insopportabile saputello e che sia in grado di relazionarsi con gli altri.

Il guaio, e qui mi tocca scomodare un’altra gigantessa del Novecento, Natalia Ginzburg , è che noi amiamo le “grandi virtù” – la generosità, il coraggio, l’amore per la verità e per il prossimo, il desiderio di sapere – ma ci sembra più sensato educare alle “piccole virtù”: il risparmio, la prudenza, l’astuzia, la diplomazia, il successo.

Scrive Natalia Ginzburg: «L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo tra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi sensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. (…) Non che le piccole virtù, in sé stesse, siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l’uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell’aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell’aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell’educazione».

Ritornando sulla terra, fra le mura di un’aula scolastica, amiche maestre mi ricordano che la competitività i bambini la imparano già abbondantemente in altri contesti – anche positivi, come lo sport – e non serve venga loro insegnata a scuola. Viceversa, la cooperazione è un’abilità da allenare perché – come molte soft skill – viene data per scontata, ma scontata non è. Se un bambino viene abituato fin da piccolo che le uniche cose che contano sono le risposte “giuste” e le consegne portate a termine, i voti e i giudizi, non imparerà mai a lavorare in gruppo e a ragionare in termini di benessere collettivo, oltre che individuale.

Quello che costruiamo con i nostri figli

Il fatto è che paroline come «inclusione» ci sembrano facili, scontate, ma in realtà comportano fatica e impegno: rinunciare alla gita scolastica se non è accessibile per il compagno disabile; andare alla festa del bambino “difficile”, quello che disturba in classe e magari è anche un po’ bullo, e ricambiare l’invito; assicurarsi che anche i genitori che non parlano bene l’italiano siano coinvolti nella vita scolastica dei figli. Il mondo che vorremmo lo costruiamo insieme ai nostri figli.

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