Qualche giorno fa mi chiama disperata un’amica neo mamma: sua figlia di quattro mesi non vuole fare il tummy-time.
Se non sapete cosa sia il «tummy time» o vivete in una grotta o non avete avuto figli neonati negli ultimi anni. In sintesi: tummy significa «pancino» e il tummy-time è l’esercizio che un lattante sveglio fa stando a pancia in giù per rafforzare collo, spalle e schiena.
Online si trovano tabelle su quanto tempo un bambino dovrebbe trascorrere così al giorno. Sembrano le schede di allenamento della palestra: si comincia con sessioni brevi di un paio di minuti, poi si aumenta gradualmente puntando al traguardo di un’ora arrivati ai 6 mesi. Probabilmente la bimba della mia amica ha la stessa attitudine che ho io al sollevamento pesi (nessuna) e preferisce starsene in braccio. Magari alcuni giorni tollera il tappetone, ma altri non ne ha voglia. La mia amica è seriamente preoccupata che non raggiungere la quota prescritta di venti minuti al giorno di esercizio possa essere un problema per la salute della figlia.
Apriamo il capitolo allattamento? La mia amica è amareggiata perché non le riesce la «presa rugby», che è uno dei modi per tenere il bambino quando si allatta al seno. Ce ne sono diversi, anche al mio corso preparto li avevano elencati tutti. Ringrazierò sempre l’ostetrica che, in ospedale, alla mia domanda se il bambino si fosse attaccato correttamente mi rispose sbrigativa: «Se ciuccia va bene». Ora probabilmente verrebbe lapidata in sala mensa dalle consulenti dell’allattamento per lo scarso supporto fornito a una puerpera. Eppure a me tolse un bel peso dalle spalle: un bambino in normali condizioni di buona salute «sa» ciucciare il latte, successivamente imparerà da solo a sollevare la testa, a mettersi seduto, a camminare, a portarsi il cibo alla bocca, a masticare, a parlare. Non c’è bisogno di «insegnare» nulla. La sua buona riuscita non dipende da noi, a meno di non essere spaventosamente negligenti.
Fidarsi del proprio bambino
Un neonato dipende dalle cure parentali per la sua stessa sopravvivenza, ma questo non ne fa un progetto che sta a noi genitori portare a termine. Se pensiamo che il nostro bambino abbia bisogno di un apposito training per raggiungere qualsiasi tappa del suo normale sviluppo significa che lo percepiamo come inadeguato e incapace. Invece è solo piccolo, ed è destinato a crescere.
Le neo mamme subiscono – in un momento della loro vita in cui spesso sono sole e in carenza di sonno - un tale bombardamento di informazioni che somiglia al lavaggio del cervello. Lo scopo finale è quello di spingerci a «consumare» di più, che siano consulenze dell’osteopata, tate del sonno, massaggiatrici infantili, paracapezzoli d’argento, fasce in cotone biologico o trio che costano quanto un’auto usata. Ogni cosa diventa un problema da risolvere: il bambino piange? Avrà le coliche. Dorme poco? Non si sente bene. Dorme troppo? Sarà letargico. Bisogna intervenire: introdurre una routine del sonno, aggiungere il latte artificiale, togliere il latte artificiale, metterlo in quella posizione e poi in quell’altra, portarlo dall’osteopata. Eppure, nella maggior parte dei casi (per i problemi di salute c’è il pediatra) non è questione di «fare qualcosa», ma di semplice sopportazione. I neonati piangono perché sono neonati e ci fanno dormire poco la notte perché i loro ritmi di veglia e sonno sono diversi dai nostri. Può essere pesante per noi, ma non è un «problema» e noi non stiamo commettendo errori irreparabili.
La performance e l’autonomia
Abituarsi a considerare il proprio bambino come «incapace» è faticosissimo per noi, ma diventa anche dannoso per la sua autonomia quando cresce. È l’anticamera del plurale maiestatis applicato ai compiti di scuola: «Abbiamo ripassato matematica», «Dobbiamo fare la scheda di italiano», «Domani abbiamo motoria», dove non si capisce chi sia iscritto alla seconda elementare, la madre o il figlio.
Un modo di vivere la scuola che non è prerogativa di alcuni genitori ansiosi, ma è largamente caldeggiato dall’istituzione stessa. Succede ogni volta che i compiti vengono assegnati sul registro elettronico (che leggono i genitori) invece che scritti sul diario (lo strumento degli alunni), ogni volta che il «lavoretto di Natale» devono farlo mamma e papà invece dei bambini (un’usanza che sta prendendo piede in tanti nidi e scuole dell’infanzia), ogni volta che sui libri della primaria compare un QR code che va evidentemente aperto con lo smartphone, ogni volta che vengono assegnati compiti che necessitano di supervisione dell’adulto. In questo contesto, il «bravo genitore» è colui che segue il figlio e si assicura che vada a scuola con il materiale giusto e i compiti ben eseguiti, a costo di farli gomito a gomito con lui e di sistemargli personalmente la cartella.
Il bravo genitore
Il bravo genitore è, fin dall’inizio, colui che vigila costantemente sulla sicurezza del figlio, compra il caschetto primi passi per impedirgli di prendere capocciate quando inizia a camminare e gattonare, prende l’imbracatura con il guinzaglietto per non fargli correre pericoli quando va in giro, imbottisce casa di paraspigoli e gommapiuma. Il bravo genitore è colui che non lascia mai solo il figlio prima dei 14 anni d’età («è abbandono di minore!») neanche per 5 minuti, neanche per andare a prendere il pane sottocasa.
Il bravo genitore è attentissimo allo sviluppo psicofisico del figlio: lo iscrive a psicomotricità, poi a danza, calcio, rugby, basket, piscina. Ai giardinetti ci va il meno possibile, sia mai che il figlio si metta in bocca la sabbia o la terra, che venga «bullizzato» dai bambini più grandi, che si nasconda dietro un albero, che segua gli amichetti scalmanati.
Il bravo genitore sceglie «la scuola migliore», lo iscrive al corso di inglese e di violino, ma continua a comprargli le scarpe con gli strappi, perché sia mai che debba gestire la frustrazione di non riuscire ad allacciarsi le stringhe.
Il bravo genitore vigila sulle amicizie del figlio, scegliendo i bambini più adeguati per favorire il suo sviluppo. Anni fa, credendo di farmi piacere, la mamma di un bambino del nido di mia figlia mi disse che era molto contenta che i due bambini si frequentassero perché «Tua figlia si esprime bene, non come X che parla tutto strano». (X aveva subito un lungo ricovero ospedaliero, per la cronaca).
In conclusione, il bravo genitore è un ottimo consumatore, impaurito e facilmente manipolabile, impegnato nel rimuovere ogni sgradevolezza dalla vita del figlio, che considera un proprio progetto di riuscita personale.
Dèsdet fò
Come se ne esce? Tornando all’antica saggezza bergamasca. «Dèsdet fò» è l’ammonimento con cui siamo stati cresciuti, tradotto per i non madrelingua: «Datti una svegliata». Funziona, a meno di non considerare segretamente degli idioti i nostri figli. Ci sono da fare i compiti? Dèsdet fò. Devi infilarti le scarpe? Dèsdet fò. Fai i capricci? Pazienza. Cadi? Rialzati. Sembra brutale, ma è tutto il contrario: significa comunicare con chiarezza ai bambini che li riteniamo capaci. Lo dico da sostenitrice dell’educazione gentile, contraria a ogni tipo di punizione corporale e di violenza: permettere ai bambini di sperimentare il fallimento, la fatica, l’errore e la frustrazione è il migliore investimento per il loro futuro.
