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Cinque colonne sonore incredibili di videogiochi che ho amato

Articolo. Una lista di cinque videogiochi vecchi, superati e obsoleti, ma a loro tempo bellissimi. Anche perché avevano una soundtrack strepitosa, capace di sonorizzarli alla perfezione ma anche di essere un ottimo disco a sé

Lettura 5 min.

Attualmente tempo ed energie scarseggiano (con un bimbo di sei mesi a dettare i ritmi della casa, il PC resta per lo più spento), ma una volta ero un appassionato videogiocatore. Succedeva quando il tempo a disposizione era inversamente proporzionale ai soldi a disposizione, e l’immaginazione di cui ero capace superava abbondantemente i mezzi grafici dei computer di allora. Centellinando le paghette – che se ne andavano soprattutto in dischi – sono riuscito nel periodo di “boom” dei giochi strategici (diciamo fine anni Novanta e primi anni Duemila) a mettere le mani su diverse perle videoludiche oggigiorno semi-dimenticate, a cui mi sono affezionato indissolubilmente grazie a ore e ore passate a giocarci, finché le mie esigue finanze non tornavano a permettermi un nuovo acquisto.

Tanti di questi giochi – al netto dell’amore con cui li ricordo – rivisti oggi sono francamente imbarazzanti per la scarsezza tecnica di quasi tutti i comparti, eccetto uno: quello sonoro. Ossessionato dalla musica anche quando videogiocavo, mi era impossibile non restare folgorato – spesso anche più del gioco in sé – da alcune composizioni, sia perché risultavano calzanti all’ambientazione e alle atmosfere del gioco che sonorizzavano, sia per il loro valore intrinseco.

Questo è un articolo imbevuto di nostalgia, che vuole idealmente sia far scoprire cose nuove a chi è più curiosone, sia titillare la lacrima facile a chi magari ha a sua volta amato uno di questi titoli. Giochi bellissimi anche se non necessariamente migliori di altri o più importanti, sicuramente accomunati da una colonna sonora pazzesca, che vale la pena ascoltare anche come disco sganciato dalle immagini che doveva musicare. Non sono le migliori colonne sonore di sempre nel mondo dei videogame: non ci troverete l’intro di «Silent Hill» o la OST di qualche «Final Fantasy», cose che più o meno tutti conosciamo. Sono invece le mie personalissime soundtrack preferite, prese dai giochi che più ho amato da ragazzino: diapositive sonore da un mondo videoludico e da un’infanzia che non ci sono più e, proprio per questo, ogni tanto è bello ricordare.

«Gorky 17» (1999)

Una città polacca sperduta, sede di esperimenti genetici militari poco limpidi condotti dai sovietici: succede qualcosa, di colpo sembrano tutti scomparsi. Tre soldati NATO vengono mandati a investigare: camminando tra le rovine di una città fantasma, scoperchieranno un vaso di Pandora colmo di orrori cronenberghiani senza fine.

Siamo di fronte a un assoluto capolavoro videoludico, uscito nel 1999: il comparto grafico – modelli 3D ben animati in movimento su ricchissimi fondali 2D – è antiquato ma molto suggestivo, la storia intrigante e il gameplay fantastico (combattimento a turni, con una varietà di mostri e armi a disposizione sterminata), ma la controparte sonora è semplicemente incredibile. Siamo a metà tra l’installazione sonora e il disco dark-ambient : ogni location della città ha un suo tema - il porto, le fogne, il museo, le strade, il laboratorio - e tutti sono intrecci di eeriness fisheriana, disturbanti fascinazioni tra Atrium Carceri e The Caretaker e sinestesie che sanno di incubi partoriti da H.G. Giger. Incredibili poi i temi dei vari combattimenti (tre per i turni del giocatore e tre per i temi dei nemici): finché si tratta di esplorare la città fantasma l’elemento ritmico – salve qualche breve scampolo – è praticamente assente. Quando però ci si imbatte negli spaventosi mutanti nascosti dappertutto, ecco che partono strumentali di sinistro synth-pop che potrebbero benissimo stare in un film di John Carpenter non ancora pensato.

Del resto il compositore di questa gemma è Adam Skorupa, uno che in futuro avrebbe firmato anche tutta la serie di «The Witcher» (mica poco). Questo è il suo primissimo lavoro, tutto da (ri)scoprire.

«Age of Empires 1 & 2» (1997 e 1999)

Il primo videogioco strategico per tantissimi: non necessariamente il migliore, molto probabilmente tra i più iconici del periodo, sicuramente uno di quelli con la colonna sonora migliore. Il primo capitolo esce nel 1997 per Microsoft, creato da Ensemble Studios: basato sulla storia antica, segue l’evoluzione civile, economica e militare di varie civiltà dall’età della pietra a quella del ferro. La colonna sonora, composta da Stephen Rippy per tutta la serie, è realizzata in seguito a uno studio approfondito e storicamente accurato della musica antica, attraverso strumenti musicali del periodo suonati o digitalmente campionati.

Il suono è quanto di più anacronistico, ambientale vaporwave si possa immaginare: archi sintetici di sfondo, percussioni non meglio identificate, scampanellii, handpan o qualcosa che gli somiglia vagamente, strumenti a corda di cui non so assolutamente il nome e tantissimo altro ancora. Tutto è filtrato da una maglia sonora inequivocabilmente anni Novanta, per un effetto generale paradossalmente tutto di plastica nonostante la cura filologica impiegata per realizzarlo, ed è (nostalgicamente) bellissimo proprio per questo. I temi più incalzanti e militareschi si alternano con grande equilibrio a quelli più riflessivi e pensosi, per brani spesso brevissimi (il totale si aggira intorno ai 24 minuti).

Forse ancora più bella la soundtrack del secondo capitolo «Age of Kings», uscito nel 1999 e ambientato nel medioevo: l’iniziale «Shamburger» è un pezzo di lo-fi hip hop che aggancia percussioni vagamente trip-hop ad atmosfere à la MediEvil che con Bristol c’entrano ben poco, e fa il paio con la solenne e oscura «I Will Beat on You Behind» (inquietanti rintocchi e quell’immortale giro di organo) come apice assoluto del disco.

«Tzar: The Burden of the Crown» (1999)

Tra gli innumerevoli epigoni dei ben più blasonati «Age of Empires» e «Civilization» vale sicuramente la pena nominare il bulgaro «Tzar: the Burden of the Crown» (in italiano «Excalibur e il Re Artù»). Ambientazione medievale ma neanche storicamente accurata come quella di «AoE» – a disposizione solo tre generiche civiltà: europea, asiatica e araba – innervata però da elementi fantasy che confondono ulteriormente le acque (non mancano draghi, geni della lampada e giganti).

La grande varietà di unità e tecnologie, insieme a un gameplay che ricalca abbastanza fedelmente quello dei suoi più illustri modelli, riesce a garantire svariate ore di gioco nonostante una grafica 2D invecchiata un po’ così così. Tuttavia nel caso di «Tzar» è proprio la colonna sonora l’elemento d’interesse maggiore: i compositori bulgari Kiril Busty Petrushev e Dimitar Sabev firmano un monumento di orchestrazioni sintetiche indimenticabile, che prende il riduzionismo primitivista del primo «AoE» e lo trasporta di peso nella brutale e maestosa solennità di un palazzo di pietra eretto nella steppa cosacca. Clavicembali digitali, cori, archi e tamburelli (che meraviglia il balletto della quarta traccia, probabilmente il vero capolavoro dell’album) per l’immersione in un mondo tanto violento quanto fiabesco.

«Empire Earth» (2001)

Forse la colonna sonora più epica di sempre? Succede che uno degli ideatori di «AoE» si metta a progettare un videogioco tutto suo, inseguendo un’ambizione spropositata: creare uno strategico che percorra tutta la storia umana, dalla preistoria al medioevo, passando per età industriale, guerre mondiali e da ultima un’era nanotecnologica ad ambientazione fantascientifica popolata da cyborg e astronavi. Il risultato è un videogioco pieno di difetti (su tutti la scarsa IA e la completamente assente diversificazione – anche banalmente architettonica – tra le varie civiltà) ma indubbiamente ricchissimo di fascino.

La soundtrack (di Ed Lima e Steve Maitland) è invece un autentico capolavoro: impressionante il reparto percussivo, con tantissimi timpani che aumentano esponenzialmente la quota di epos del tutto; poi archi e cori maestosi che raggiungono l’apice insuperato nel main-theme di apertura: inevitabili i brividi per «TERRA IMPERIUM» da parte di chiunque ci abbia giocato.

«Warcraft 3: Reign of Chaos & The Frozen Throne» (2002)

Sicuramente – insieme alla serie di «AoE» – il titolo più mainstream di questa personale e sindacabile rassegna. Capolavoro vero, di altissimo profilo su tutti i comparti. Per chi non lo conoscesse: classico mondo fantasy (orchi, umani, elfi e non morti), lotte tra demoni, portali tra i mondi, abbondanti tinte horror e gore, una grafica cartoonesca che ha fatto scuola e, quel che ci interessa, una colonna sonora devastante.

Protagonista indiscusso del terzo capitolo della serie – nonché della sua espansione «The Frozen Throne» – è il principe Arthas, quasi novello Anakin Skywalker di cui sono raccontate la vertiginosa ascesa e precipitosa caduta: da leader ed erede al trono degli umani, simbolo di carisma e speranza e orgoglio del papà, il biondo principe comincia a imbattersi in non-morti che gli stanno via via sempre più simpatici, trucidare innocenti e a correre dietro a spade leggendarie infestate dagli spiriti. È solo l’inizio di una spirale di depravazione e orrore che lo porterà in breve tempo a diventare il nuovo lich-king , con tutti gli onori e oneri che la carica comporta.

Se la storia di «Warcraft 3» è un masterpiece di sceneggiatura da cui si potrebbe tranquillamente pescare a piene mani per fare (sarebbe anche l’ora) un bel film sulla serie, la colonna sonora è a sua volta perfetta. I temi variano a seconda della razza scelta per giocare: ovviamente più eterei per gli elfi, più tribali per gli orchi e così via, ma il vero capolavoro è la OST dell’espansione. Più centrata sulla discesa nei ghiacci infernali di un Arthas ormai in preda alla follia, la traccia di apertura potrebbe tranquillamente essere l’intro a un disco degli Immortal, affrescando un inverno disumano e sinistro. Il meglio arriva però con «Arthas Theme», che musicalmente sintetizza alla perfezione la caduta dell’ultima speranza degli umani: è trionfale, ma con un senso di tragicità sottesa e incombente che la rende quasi una sinistra parodia di ciò che sarebbe potuto essere, ma non sarà mai.

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