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«Là dove finisce il buio», il ritratto di due uomini di fede al tempo della Resistenza

Intervista. Sabato 2 agosto debutterà a Osio Sotto per «deSidera Bergamo Festival» lo spettacolo dedicato alle figure di don Giuseppe «Bepo» Vavassori e don Antonio Seghezzi. Sabato 30 agosto la storia dei due sacerdoti verrà portata a Premolo, paese natale di don Antonio

Lettura 6 min.
L’attore e regista Stefano Panzeri (Foto deSidera Bergamo Festival)

Quando si parla di Resistenza, il pensiero corre istantaneamente alle incursioni partigiane, alle guerriglie senza quartiere che sono avvenute in tutta Italia negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale e, in generale, ai grandi eventi tumultuosi del secolo scorso. Tuttavia, basta scavare un po’ più a fondo per trovare storie ed episodi che hanno a che vedere con un altro tipo di lotta, più silenziosa e basata sulla costruzione non violenta di fondamenta solide per un futuro di pace.

È il caso di don Giuseppe «Bepo» Vavassori e don Antonio Seghezzi, uomini di fede che hanno fatto della lotta per una pace umana e giusta la ragione della propria vita. Proprio queste due figure saranno protagoniste di «Là dove finisce il buio. Due uomini di fede al tempo della Resistenza», opera prodotta da « deSidera » - Teatro degli Incamminati, co-prodotta dalla Fondazione Adriano Bernareggi, scritta da Marialuisa Miraglia con Stefano Panzeri, diretta da Stefano Panzeri e con musiche originali di Simone Riva. Lo spettacolo ha il patrocinio della Diocesi di Bergamo e il sostegno del Comune di Osio Sotto.

Protagonisti di speranza

I due protagonisti della narrazione sono don Bepo Vavassori e don Antonio Seghezzi, due sacerdoti bergamaschi – il primo nato a Osio Sotto nel 1888 e il secondo a Premolo nel 1906 – che hanno vissuto in prima persona i drammatici momenti di inizio secolo. Don Bepo, fondatore nel 1927 del Patronato San Vincenzo oltre che direttore de «L’eco di Bergamo» dal 1930 al 1932, venne arrestato nel 1943 e condotto nel carcere di sant’Agata con l’accusa di aver aiutato i perseguitati dalle truppe nazifasciste a nascondersi dai rastrellamenti. Dopo la restaurazione, si prodigò per rendere il Patronato San Vincenzo un punto di riferimento per la formazione ed il sostegno della comunità.

Don Antonio Seghezzi, ordinato sacerdote nel 1929 e cappellano militare dal 1935 al 1937, nel 1943 si consegnò spontaneamente alle truppe nazifasciste che minacciavano ritorsioni contro la città e la Diocesi di Bergamo per la sua scelta di seguire alcuni dei suoi ragazzi partiti per le montagne come partigiani. Dopo circa un mese passato nel carcere di Sant’Agata, Seghezzi venne processato e condannato a cinque anni di lavori forzati. Deportato in Germania, morì a Dachau il 21 maggio 1945.

«Là dove finisce il buio»: la storia di due uomini

Per capire quale è stato il lavoro che ha portato alla nascita di quest’opera basta sulla vita di don Bepo e don Seghezzi, abbiamo parlato con Marialuisa Miraglia, giornalista e autrice dei testi di «Là dove finisce il buio».

G.T: Com’è nata l’idea di questo spettacolo?

M.M: Il progetto è nato da una proposta di Gabriele Allevi, direttore artistico di «deSidera», che mi ha chiesto di mettermi alla prova con un testo teatrale. L’idea iniziale era di raccontare la Resistenza a partire da due figure fondamentali per la storia della Chiesa bergamasca: Don Bepo Vavassori e Don Antonio Seghezzi. La produzione è una coproduzione tra «deSidera» – Teatro degli Incamminati e Fondazione Adriano Bernareggi.

G.T: Perché proprio queste due figure?

M.M: Quest’anno ricorrono gli 80 anni dalla Liberazione e, in questo contesto, cadevano anche due anniversari importanti per la Chiesa di Bergamo: il cinquantesimo dalla morte di Don Vavassori e l’ottantesimo dalla morte di Don Seghezzi, avvenuta a Dachau nel 1945. Leggendo e documentandomi, ho scoperto che tra i due c’era un legame profondo, una vera amicizia. Non erano solo due figure isolate, ma testimoni di un’umanità forte e resistente.

G.T: Come ti sei documentata per la scrittura del testo?

M.M: Ho letto molto. Biografie, lettere, editoriali. Mi sono immersa nello studio di testi su Don Vavassori, come quelli pubblicati dalla Sesaab e, in particolare, negli scritti di Don Andrea Spada, storico direttore dell’Eco di Bergamo. Per Don Seghezzi ho studiato due biografie, una di Goffredo Zanchi e un’altra raccolta di testimonianze edita sempre da Sesaab. Ma la fonte più preziosa è stata Don Tarcisio Tironi, vicepostulatore della causa di beatificazione di Seghezzi: mi ha fornito lettere, scritti, testimonianze dirette.

G.T: Cosa ti ha colpito di più in questa ricerca?

M.M: Due cose. La prima è stata scoprire quanto, nella nostra terra, siano esistite persone capaci di credere in un’umanità diversa in un tempo di buio come quello della guerra. La seconda è la forza della Resistenza non armata: sia Don Seghezzi che Don Vavassori hanno scelto di resistere senza imbracciare armi, con la forza delle parole, della fede e dell’esempio. In una delle sue lettere, Seghezzi scrive «se non mi fossi consegnato, che esempio avrei dato ai miei giovani?». Questa frase mi è rimasta dentro.

G.T: Com’è stato trasformare questa ricerca in uno spettacolo teatrale?

M.M: Molto difficile. Era la mia prima esperienza come autrice teatrale. Avevo tanto materiale, due figure complesse, una storia importante. E sapevo fin da subito che in scena ci sarebbe stato un solo attore. Quindi ho dovuto trovare una forma narrativa adatta: ho scelto di far parlare Don Bepo, perché è sopravvissuto a Don Antonio e poteva raccontarne la storia da un punto di vista più ampio. L’ho immaginato nella cella del carcere di Sant’Agata, dove effettivamente furono rinchiusi entrambi nel dicembre del 1943, pochi giorni prima che Seghezzi venisse deportato in Germania.

G.T: Quindi il carcere è l’ambientazione dello spettacolo?

M.M: Sì, è l’ambientazione simbolica e reale. Don Bepo, nella cella, ripercorre la propria vita e quella dell’amico. Racconta ciò che è successo, ciò che sarebbe potuto succedere, ciò che ha significato quella reclusione. Ma non è solo un ricordo nostalgico. In scena si alternano due spazi: quello della prigione, dove tutto accade nel «qui e ora», e un secondo spazio dove il protagonista riflette sul passato e sul futuro. Il testo è mio, ma è stato fondamentale il confronto con Stefano Panzeri, che ha curato anche la regia. È un attore professionista, e insieme abbiamo dato forma al monologo, trovando un ordine, un ritmo, una struttura. In scena ci sarà anche un musicista, Simone Riva, che ha composto le musiche originali per lo spettacolo.

G.T: Il titolo «Là dove finisce il buio» da cosa nasce?

M.M: Dal desiderio di raccontare una luce possibile, anche nei momenti più bui. Il buio del carcere, il buio della guerra, il buio della paura. Ma anche la capacità di questi due uomini di guardare oltre. Di sperare, di amare, di credere. È un titolo che racchiude ciò che ho voluto trasmettere: il loro sguardo rivolto sempre a un oltre.

G.T: Cosa ti ha lasciato, a livello personale, questo lavoro?

M.M: La sensazione di aver camminato per mesi con due uomini straordinari accanto. Ho provato a spogliarli della loro dimensione “sacra” per restituirli come uomini, semplicemente. Uomini che hanno avuto paura, che hanno lottato, che hanno creduto nei giovani. E che, con la loro vita, hanno lasciato un’eredità ancora attuale.

Due spazi e due tempi per un unico racconto

Dovendo raccontare con un monologo momenti diversi della vita di due personaggi, è stato indispensabile lavorare sulla costruzione di tempi narrativi e sulla suddivisione in spazi del palco. «Lo spazio scenico – spiega il regista Stefano Panzeri, che sul palco interpreta don Bepo – è concepito come una doppia ambientazione: da un lato il luogo del racconto, dall’altro quello del vissuto. La scena sarà infatti divisa in due ambienti distinti: ci sarà la cella di don Bepo che rievocherà gli ultimi giorni di prigionia di Seghezzi nella prigione di Sant’Agata, e un secondo spazio più astratto con una narrazione temporale in cui don Bepo, ormai anziano, rievoca la sua amicizia con Antonio e, di riflesso, l’esperienza del patronato e l’impegno civile di quell’epoca. Abbiamo voluto strutturare la rappresentazione in modo che il pubblico possa percepire chiaramente il passaggio da un tempo all’altro, anche grazie all’uso di pochi oggetti simbolici e all’illuminazione. In questo senso, anche la musica ha un ruolo centrale: le musiche originali sono state composte da Simone Riva, chitarrista e compositore con cui collaboro dai tempi del lockdown. Le sue sonorità, insieme alle luci e agli elementi scenici, aiuteranno lo spettatore a orientarsi tra i due piani del racconto».

«Fare memoria – dichiara don Davide Rota Conti, direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Cultura è un atto di responsabilità e di gratitudine verso il passato, che diventa luce per leggere il presente e costruire il futuro. In occasione dell’80esimo e del 50esimo anniversario della morte di don Antonio Seghezzi e di don Bepo Vavassori, la Diocesi di Bergamo ha voluto promuovere una produzione teatrale che sapesse restituire la profondità e la forza di due figure sacerdotali che, nella drammaticità del loro tempo, seppero testimoniare il Vangelo con coraggio, intelligenza e dedizione. Don Antonio e don Bepo sono stati innanzitutto due preti bergamaschi che hanno vissuto la propria vocazione nel cuore della storia, dentro le sfide complesse della Resistenza, dell’esercizio generoso della carità, della passione per la formazione dei giovani, della difesa coraggiosa della dignità umana. Il loro esempio ci interpella ancora oggi. Questo spettacolo teatrale, che prende forma grazie a un attento lavoro di ricerca storica, rappresenta per noi non solo un momento di alto valore culturale, ma anche un’occasione di annuncio del Vangelo attraverso i linguaggi dell’arte e del teatro». «Ringrazio Teatro “deSidera” – continua don Davide Rota Conti – per la sensibilità e la disponibilità, e tutti coloro che hanno collaborato a questo progetto. Il nostro auspicio è che questa produzione possa contribuire a far conoscere a un pubblico ampio e trasversale due figure luminose del presbiterio diocesano, e possa restituire un’immagine viva di una Chiesa che, anche nei momenti più oscuri, ha saputo essere prossima, solidale, libera».

Lo spettacolo, inserito nel cartellone di «deSidera Bergamo Festival», debutterà in prima assoluta a Osio Sotto sabato 2 agosto alle 21.15 in piazza Papa Giovanni XXIII o, in caso di maltempo, presso la sala della comunità Mons. Vincenzo Savio, via S. Alessandro, 3. Sabato 30 agosto, sempre alle 21.15, verrà portato a Premolo, paese natale di Don Antonio Seghezzi. La location individuata sarà il sagrato della chiesa Parrocchiale S.Andrea Apostolo. In caso di maltempo, l’opera verrà eseguita all’interno della Parrocchiale. L’ingresso sarà per entrambe le serate libero e gratuito.

Per scoprire tutta la programmazione di «deSidera Bergamo Festival», che proseguirà fino a settembre, è possibile consultare il sito internet della rassegna.

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