Fin da quando si è insediato alla Casa Bianca, Donald Trump è stato definito un «ciclone» da analisti e politologi. Lo stile (comunicativo quanto di governo) vulcanico ed erratico del tycoon ha reso imprevedibili – quasi inintelligibili, addirittura - le mosse degli Stati Uniti sullo scenario internazionale. Caos e confusione sono i due termini più utilizzati per descrivere il clima che si respira a Washington da qualche mese a questa parte. Qualcuno, tra le malelingue, parla di pura e semplice improvvisazione, facendo riferimento ai numerosi dietrofront del Presidente e alle «gaffe» commesse di recente, ultimo ma non ultimo il ricorso a ChatGPT per il calcolo dei dazi che stanno scuotendo l’economia mondiale. Eppure, ridurre Trump, la sua dottrina politica e la sua amministrazione a mine vaganti sarebbe riduttivo. Abbiamo provato a fare chiarezza insieme a Fulvio Scaglione, ex-corrispondente da Mosca e dal Medio Oriente che poche settimane fa ha presentato a Bergamo il nuovo numero di Limes, intitolato «America Contro Europa».
Trump «ci è o ci fa» ?
Se avete dato una rapida occhiata alle notizie delle ultime settimane, ve lo sarete sicuramente chiesto: Trump «ci è o ci fa» ? O meglio: il Presidente USA è un attore razionale (e dunque per certi versi prevedibile) oppure è un agente del caos? Si tratta di una domanda a cui è difficile rispondere, sulla quale anche gli esperti sono divisi. Molti ritengono che la Casa Bianca “navighi a vista”, senza una strategia di lungo, medio e breve periodo. Ciò spiegherebbe i continui cambiamenti e dietrofront del tycoon , le cui posizioni tendono a mutare molto velocemente - talvolta anche nel giro di poche ore.
Altri non sono d’accordo. Per esempio, Laura Canali ci aveva spiegato che le posizioni trumpiste rientrano in una strategia definita da tempo, che però non può essere analizzata tramite le lenti della politica: Trump è un affarista , un imprenditore, e continua a comportarsi come tale ora che vive alla Casa Bianca. Le sue dichiarazioni roboanti e le pressioni politiche su Paesi come l’Ucraina sarebbero leve negoziali per ottenere ciò che vuole, né più né meno. Scaglione aggiunge un altro, importantissimo dettaglio: «Trump è un po’ il “Damiano dei Måneskin” della politica americana: è il frontman di un assetto di potere molto complesso che va oltre la sua figura. Il suo carattere è il prodotto della comunicazione politica contemporanea, fatta di annunci clamorosi e di svolte altrettanto roboanti, spesso annunciate tramite i social».
Perché Trump ha varato i dazi?
Se dietro a Trump ci sono una dottrina politica e una pianificazione precisa, però, tante delle sue mosse devono ancora essere capite appieno. L’ultima, in ordine di tempo, è stata la decisione di imporre pesanti dazi al resto del mondo, senza fare distinzioni tra Stati rivali (la Cina) e alleati (l’Europa e il Giappone). Da un punto di vista economico, il ragionamento di Trump è semplice. Le tariffe applicate sui beni di importazione li renderanno meno vantaggiosi rispetto a quelli realizzati sul suolo americano, convincendo le aziende a riportare gli stabilimenti in patria e spingendo il «Made in USA». Ciò significa più posti di lavoro negli Stati Uniti e più tasse per lo Stato.
In realtà, i dazi si portano sempre dietro dei contro-dazi, che in questo caso potrebbero innescare una crisi economica globale che potrebbe colpire duramente anche (soprattutto?) l’America. Ma perché Trump ha deciso di gravare anche gli alleati storici con le tariffe? «È una questione politica. Tra gli Stati Uniti e l’Europa è sempre esistito un rapporto di vassallaggio, che fino a pochi mesi fa era in qualche modo “fiducioso”. C’era una parte più potente e ce n’era una subordinata, ma vigeva un certo rispetto reciproco. Ora quel rispetto non esiste più. Questo perché, nell’ottica di Trump e del suo vicepresidente JD Vance, l’Europa è troppo “liberal”, cioè schierata dalla parte di quella sinistra “woke” a cui appartengono le università e politici come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, impegnata per le politiche per i migranti e per le donne che l’amministrazione Trump contesta fin dal suo insediamento».
Perché Trump vuole la pace in Ucraina?
L’altra faccia della politica americana in Europa è il desiderio di pacificare rapidamente l’Ucraina. Desiderio così incrollabile che il tycoon sembra essere disposto a tagliare i ponti con Kiev (e in particolare con il Presidente Volodymyr Zelensky), azzerando le forniture di armi e il supporto americano, qualora un accordo non venisse raggiunto a stretto giro. Le spiegazioni di questo afflato pacifista sono diverse. C’è chi crede che Trump voglia utilizzare il sostegno a Kiev come merce di scambio per ottenere lo sfruttamento a basso prezzo delle miniere ucraine di terre rare. E c’è persino chi teme che Washington sarebbe disposta a spartire in due l’Ucraina e dividersi le sue risorse con Mosca, qualora Zelensky non cedesse alle sue richieste.
Ma la Casa Bianca vuole ritirarsi dalla guerra in Ucraina anche per un altro motivo, secondo Scaglione: «Gli Stati Uniti hanno dei seri problemi geopolitici in parti del mondo che ritengono più strategiche. La principale è l’Indopacifico, dove il contenimento della Cina è un imperativo. Trump vuole distogliere risorse dalla competizione con Mosca per investirle in quella con Pechino. C’è però una differenza: la lotta con la Russia è armata, quella con la Cina è economica. La strategia è quella di ridurre l’impegno sui fronti non essenziali, come l’Ucraina, e di focalizzarsi su quelli più importanti, come i dazi contro la Cina».
Che ne sarà della NATO?
Lo spostamento del baricentro della politica estera americana dall’Europa all’Asia potrebbe portarsi dietro il tracollo della NATO, o quantomeno un suo depotenziamento. Eppure, fino al termine della presidenza Biden, l’Alleanza Atlantica sembrava in ottima salute: come è stato possibile un cambiamento così repentino? «Agli occhi degli atlantisti, la guerra in Ucraina ha rivitalizzato l’Alleanza. Per certi versi è vero, perché si è allargata ad altri Paesi, come la Svezia e la Finlandia, mentre i Paesi europei hanno iniziato a investire di più nella loro difesa», spiega Scaglione, che però aggiunge: «Tuttavia, la NATO non ha saputo garantire una maggiore sicurezza per i suoi Stati membri. Il caso della Finlandia è emblematico: quando è entrata nella NATO, la Russia ha iniziato a considerarla come parte di un blocco ostile e ha aumentato le pressioni militari sul confine. Il risultato è che la Finlandia ha chiesto agli Stati Uniti ancora maggiore protezione. Ma in uno scenario in cui Washington vuole spendere meno nella difesa degli alleati europei, è impensabile un aumento del numero di basi americane in Svezia e Finlandia».
Il risultato è paradossale: i Paesi appena entrati nella NATO si sentono meno sicuri di prima, e per questo hanno ripreso a investire nel riarmo nazionale e, per i membri dell’UE, nella politica di difesa comune che Scaglione definisce uno «specchietto per le allodole». La sfiducia è incrementata dai colloqui di pace in Ucraina, dai quali Kiev è stata dapprima estromessa e poi tenuta in scarsissima considerazione non solo dalla Russia, ma anche dagli Stati Uniti. Su queste basi, insomma, la NATO sembra rischiare oggi più che mai il tracollo.
Perché gli Stati Uniti ce l’hanno con l’Europa?
Prima l’abbandono (parziale, per ora) dell’Ucraina, poi i dazi contro le nostre merci. Di fronte a questi eventi, una domanda sorge spontanea: perché l’Europa non piace a Donald Trump? «Credo che il declino del rapporto atlantico sconti due crisi parallele, entrambe in corso dall’altra parte dell’oceano», riporta Scaglione, che continua: «Una è la crisi di potenza: gli Stati Uniti non sono più in grado di fare il bello e il cattivo tempo nel resto del mondo, e l’andamento del conflitto ucraino lo dimostra. L’altra è quella del debito: Washington ha accumulato un debito pubblico enorme, così grande che è persino difficile da quantificare. Azzerare questo debito è impossibile, ma occorre almeno ridurlo».
Perché queste due crisi pesano sul rapporto atlantico? Secondo l’esperto, economia e apparato militare vanno di pari passo: «Gli Stati Uniti hanno sempre utilizzato la loro potenza militare per crearsi alleanze commerciali e per trovare mercati disposti a comprare le materie esportate dalle aziende americane e a importare a basso prezzo i loro prodotti sul mercato statunitense. Con il tempo, gli Stati Uniti hanno trovato più conveniente comprare le merci prodotte all’estero che produrle in casa: questo sistema ha causato una gravissima crisi dell’industria americana e un debito ingestibile». Per risolvere il problema, Trump ha varato i dazi e, al contempo, ha ripreso a utilizzare la protezione militare come merce di scambio per ottenere ciò che vuole in politica economica. Ma allora da cosa dipende questo accanimento americano contro l’UE e i suoi Paesi membri? «Al di là delle simpatie politiche, è più un problema nostro che di Trump: lui ci considera al pari della Cina, dei Paesi dell’Asia e di quelli dell’Africa. Non riconosce quella relazione speciale ha storicamente legato Nordamerica ed Europa. Ciò ci stupisce, ma non dovrebbe».