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È possibile educare contro la violenza? Vorrei chiederlo agli uomini

Articolo. Oggi, 25 novembre, è la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne», ma c’è un errore: il focus del discorso non dovrebbero essere le donne, ma gli uomini. Chiamiamola, piuttosto, «Giornata internazionale contro la violenza maschile» e cominciamo a capire cosa possiamo fare noi genitori per contrastarla (e cosa invece no)

Lettura 6 min.

L’altro giorno, al parco giochi, mi imbatto in un paio di ragazzini che avranno nove o dieci anni. Uno dei due appoggia le mani sulle spalle dell’altro, come per saltare, festoso. L’amico si volta e gli dice: «Ma sei frocio?». La faccia si rabbuia e si accartoccia. Sono episodi che potrei citare a decine: il bambino che, dopo aver subito un fallo durante una partita di calcio, viene incoraggiato dal padre a menare l’avversario; quello che sbaglia un gol ma non può piangere perché sarebbe fonte di vergogna; chi vorrebbe scrivere un diario segreto come la sorella, ma “da maschio” non c’è, perché è previsto che i bambini si orientino su altro.

Quali sono i modi in cui si definiscono i codici di comportamento dei maschi? Perché è del tutto normale che due amiche – bambine o adulte – possano abbracciarsi, confidarsi, essere affettuose, persino dormire nello stesso letto, mentre due maschi no? Perché l’unico contatto fisico ammesso fra due amici - bambini o adulti – deve essere la “lotta” (vera o giocata)?

«Quando viene in studio un bambino con problemi comportamentali, a volte capita che venga definito dal padre come “uno che sa farsi valere”», racconta Gian Marco Marzocchi, professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione alla Bicocca e psicologo presso il Centro per l’Età Evolutiva di Bergamo. «La stessa cosa non vale per le bambine, anzi, se una bimba si “comporta male” è fonte di imbarazzo».

La questione maschile

Tutti gli uomini sono diversi, tutte le donne sono diverse, e la responsabilità penale è individuale. Fatta questa premessa, possiamo ammettere che, forse, un problema con l’identità maschile esiste. Racconta la psicologa e psicoterapeuta Gloria Volpato, direttrice del Centro Divenire, Centro di Psicoterapia Umanistica Integrata di Torre Boldone e pioniera nel sostegno allo sviluppo dell’interiorità maschile, avendo fondato dieci anni fa il Cerchio degli Uomini: «I maschi sono educati alla performance, al dover essere, e si nascondono a loro stessi. Per questo sono muti, per questo hanno così poco da dire su di sé e parlano di cose concrete, opinioni politiche: sono ignoranti di loro stessi perché si ignorano . E questa ignoranza la ricalchiamo continuando a non chiamare le cose con il loro nome: “Giornata contro la violenza sulle donne” anziché “Giornata contro gli uomini violenti”, perché è di questo che si tratta».

Effettivamente, per una volta, vorrei che della «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» parlassero gli uomini. Non per fare mansplaining , e neanche per recitare un dovuto atto di dolore, ma per confrontarsi fra di loro, darsi una nuova consapevolezza, indagare sé stessi, chiedersi che compagni, che padri, che colleghi, che amici vogliono essere. Invece la reazione più frequente, stizzita, è prendere le distanze: «Ma io non sono così», #NotAllMen. E io vorrei tanto urlare: ma grazie che non sei così, non hai ammazzato di botte nessuna, vuoi una medaglia?

Anche chi non è mai stato “violento” potrebbe chiedersi: io chi sono, come mi comporto? Sono capace di dare conforto al mio amico che è appena stato lasciato, senza insultare lei? Se mi rendo conto di stare male prendo in considerazione l’idea di chiedere un aiuto psicologico? Quando amici, colleghi, compagni di calcetto parlano di donne come di carne da macello sono in grado di dissociarmi? Posso non ridere se il mio capo fa una battuta sessista? Sono un padre presente? Supporto mia moglie nelle sue ambizioni lavorative? Se una donna non mi piace – che sia la presidente del Consiglio, una mia ex o l’impiegata delle Poste – riesco a criticarla senza tirare in ballo la sua condotta sessuale?

«Se un padre iniziasse a chiedersi: “Se mio figlio avesse comportamenti abusanti con la sua fidanzata, io me ne accorgerei?” sarebbe già un successo. La risposta non è semplice, bisogna avere instaurato un dialogo molto prima, negli anni della preadolescenza», spiega Marzocchi.

Il rispetto non si insegna, si vive

La famiglia, la scuola. Di fronte a un caso di femminicidio sono le prime istituzioni su cui si punta il dito. È una reazione pavloviana, che si ripete identica davanti a un bambino prepotente così come davanti a un assassino: «Ma chi lo ha educato?». E si scopre, inevitabilmente, che lo hanno educato le femmine. Donne sono le madri, le principali responsabili dell’educazione dei figli, donne sono la grande maggioranza delle insegnanti. La colpa è sempre nostra: che non sappiamo riconoscere i segnali di un rapporto malato, che siamo così idiote da andare a un ultimo appuntamento, che educhiamo mostri.

Ma io penso ai due ragazzini al parco giochi e di certo la parola «frocio» come insulto non l’hanno imparata dalle maestre, e forse nemmeno a casa. Quasi di sicuro, ci scommetto, non l’hanno sentita dalle loro mamme. E anche il mostro, l’assassino femminicida: siamo certi che sia cresciuto in un contesto moralmente degradato, che il padre menasse la madre, che in casa abbia avuto esempi riprovevoli? Io no. Sarebbe comodo pensarlo, per poter dire: «Noi no, siamo diversi». Non siamo diversi, nella misura in cui viviamo tutti la stessa epoca.

Spiega Volpato: «I figli sono figli del tempo in cui nascono: siamo tutti immersi nella stessa cultura. Ci proclamiamo femministi e femministe, ma poi se vediamo una donna senza un uomo la definiamo “sola”, se non abbiamo un uomo ci definiamo “sole” e mettiamo in dubbio il nostro valore. Se una donna non guida di notte o in autostrada o non ha un conto corrente personale ci sembra tutto sommato normale. Ci sembra pacifico che non abbia un lavoro o non sia in grado di mantenersi. Se invecchia o ingrassa è la prima cosa che notiamo. Se non fa figli è una donna, ma non fino in fondo. Diciamo che la colpa è dei genitori ma stiamo pensando che sia delle madri, ché in Italia si sa che i padri sono assenti giustificati, loro lavorano. Il rispetto non si insegna: è il femminile autorevole che si prende il suo posto nel mondo. Se un figlio vede la madre rinunciarci, entrerà nell’ottica che è normale. Quindi, se una donna lo supera, si sentirà un fallito».

Hai voglia, allora, a educare. Se la considerazione di un uomo si misura in quanti soldi fa e in quanto successo ha, come possiamo sovvertire un intero sistema di valori? «Sarebbe ora che l’immagine positiva che abbiamo di noi stessi dipendesse da quanto ci prendiamo cura degli altri, e non da fattori esterni», commenta Marzocchi.

E vogliamo correggere un’epoca con un’ora di educazione sentimentale a scuola?

L’educazione sentimentale

Chiunque abbia letto il romanzo di Flaubert sa che non va a finire tanto bene. E così, temo, potrebbe accadere con le ipotetiche ore scolastiche dedicate all’affettività. C’è bisogno veramente di una materia apposita per spiegare che gli altri si trattano con rispetto? Forse sì, ma senza sottovalutare il lavoro svolto dall’insegnante.

A parte il fatto che le basilari regole di comportamento a scuola (si alza la mano, ci si mette in fila, si aspetta il proprio turno, si ascolta, non si urla) sono già di per sé educazione al vivere civile, perché supporre che la cultura stessa – italiano, storia, matematica, scienze, arte, musica – sia irrilevante ai fini dell’educazione sentimentale? Cosa c’è di più educativo che studiare le parole, dare forma ai propri pensieri e un nome alle proprie emozioni? Forse che lo studio di funzione e i logaritmi non ci insegnano la pazienza e la resistenza alla frustrazione? Cosa c’è di più formativo di un’ora di storia fatta bene per capire chi siamo e da dove veniamo? E davvero le scienze e la biologia non hanno niente da dirci, a questo proposito?

Più in generale: lo studio di cose alte, difficili, complesse, appassionanti non è nozionismo, non serve a “prendere bei voti”, “fare bella figura” o “trovare lavoro”, ma a diventare persone migliori, pure dal punto di vista sentimentale. Come possiamo essercene dimenticati?

Che fare?

Chiunque abbia figli sa che dire loro frasi come «Devi essere più ordinato, mangiare le verdure, andare a letto presto» ha un’efficacia prossima allo zero. Veramente pensiamo che la risposta educativa alla violenza sulle donne sia fare la morale sul patriarcato ai bambini di 7 anni e spiegare alle bambine di 4 anni che non devono andare agli ultimi appuntamenti? (Non sono esempi inventati, lo giuro). Se educare consistesse nel dire ai bambini cosa possono o non possono fare – come si illudono molti che di figli non ne hanno – non saremmo genitori, ma programmatori di computer.

Crediamo davvero che se un uomo uccide una donna è perché in famiglia gli hanno suggerito che era una buona idea? Spiega Marzocchi: «Non è detto che un uomo violento provenga da una famiglia violenta. Può anche essere una persona con una bassa immagine di sé. Se la compagna lo lascia la sua identità è minata, la sua vita crolla e questa frustrazione gli risulta impossibile da sopportare». Approfondisce Volpato: «Misconoscendo i propri bisogni affettivi, non avendo un rapporto profondo col padre, i maschi diventano dipendenti dalle donne in una forma particolare che si chiama controdipendenza. Hanno bisogno di loro per non naufragare nel vuoto e nell’isolamento che la loro maschera ha creato ma al contempo non lo mostrano, la negano. Pretendono che l’altra resti a prendersi cura di loro come se fosse un diritto».

Abbiamo bisogno di padri, di incoraggiare l’espressione dei bisogni affettivi e l’autostima (che non consiste nel dire ai bambini quanto sono bravi e belli), di porre l’attenzione sulle relazioni, più che sulla performance.

Io non penso che educare un figlio maschio dovrebbe essere diverso dall’educare una figlia femmina e nemmeno che si possa educare in una bolla: cosa sia un uomo e cosa sia una donna non è solo biologia e non lo insegnano solo i genitori. Certi schemi mentali vengono assorbiti come l’aria che respiriamo: dalla nostra storia, personale e collettiva; da quello che i nostri figli vedono fuori di casa e online; dall’industria culturale e dell’intrattenimento, la pubblicità, la musica, gli influencer; dai modelli che vengono proposti come desiderabili e vincenti; da tutte le persone che frequentano, gli altri bambini, le loro famiglie. Non educhiamo veramente i nostri figli, se non ci interessiamo a tutto ciò che sta loro intorno.

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