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#psicogeografie: i film che ci facciamo in testa

Articolo. È facile perdersi nei labirinti della mente, allontanandoci dalla realtà materiale che stiamo vivendo. Possiamo riappropriarci del nostro naturale ruolo di registi di queste proiezioni e provare a dirigerle, ovvero a dare una direzione che ci indichi una via d’uscita

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All’inizio c’è solo il buio, e un silenzio quasi totale. Poi appare una luce, dei suoni. E iniziamo a vivere una storia, non del tutto estranea, non del tutto nostra. Andare al cinema ha molte cose in comune col sognare.

Passeggiando nel centro di Bergamo, per chi frequenta la città da alcuni anni, è possibile riconoscere alcuni locali che una volta erano cinema che ora sono chiusi, sono diventati altro o sono stati abbandonati o abbattuti, come sogni svaniti al risveglio. Cambiamenti come questi non possono non influenzare la vita di chi vive in un determinato luogo. A tal proposito è doveroso per me citare il recente film (che definirei “psicogeografico”) di Alberto Valtellina, «La strada infinita» , che inizia proprio in un cinema di Bergamo, il cinema Del Borgo, e racconta la vita di una delle vie principali della città, via Borgo Palazzo. Queste chiusure sono legate sicuramente a un cambiamento di mercato e del modo in cui fruiamo della visione di film, oltre che dall’apertura dei multisala fuori dai centri cittadini (e spesso vicino o dentro centri commerciali) e della diffusione di piattaforme di streaming.

Considero l’andare al cinema una sorta di rito collettivo, qualcosa di magico che si crea grazie all’immersività del grande schermo, ma anche per il fatto di fare la stessa cosa contemporaneamente ad altre persone, vivere all’unisono la stessa storia. All’estremo opposto ci sono i “film” che ci facciamo in testa. Si tratta di un’esperienza abbastanza comune, il perdersi nei vagheggiamenti del pensiero, in cui ci creiamo scenari possibili e fantastici.

Ma chi è il regista di questi film? E lo sceneggiatore? A prima vista potremmo rispondere che siamo noi, questo rimuginare è un’attività volontaria. Finché non ci capita di non riuscire a uscirne, e di restarci intrappolati, come in un labirinto di specchi.

Un esempio di questo è il “film mentale” nel recente film di Ari Aster «Beau ha paura», il cui protagonista si perde totalmente, almeno nella mia interpretazione, nelle sue figurazioni catastrofiche su quello che potrebbe accadere. Questo esempio cinematografico ci porta alla questione della “trama” dei nostri film: qual è il significato, che senso ha farsi film dai finali tragici, dipingendo scenari in cui inevitabilmente quello che vorremmo fare finisce male? Una possibilità è che sia un modo di proteggerci, un “meccanismo di difesa” denominato «anticipazione», che ci porterebbe a figurarci la peggiore delle possibilità per arrivarci in qualche modo preparati al peggio. Il rischio di questo tipo di sceneggiature, ovviamente, è che ci blocchi totalmente, diventando una gabbia che ci protegge sì da minacce esterne, ma ci impedisce anche di muoverci liberamente.

Può essere importante capire quali sono le trame di questi film mentali, se ci sono schemi che si ripetono, perché tutto ciò ci può dire molto su che tipo di “registi” siamo nelle nostre vite. Il regista dirige il film (in inglese si dice «director»), gli dà una direzione. Allo stesso modo, i nostri “film” possono essere un modo in cui cerchiamo di dare un senso a quello che ci succede.

Certamente si può restare bloccati anche da “film” ottimisti, come succede a Des Esseints, il protagonista di «Controcorrente» di Joris-Karl Huysmans che, in procinto di partire, si sente tanto soddisfatto dal viaggio mentale fatto al porto da rinunciare e tornarsene a casa. In questi casi, il “film” potrebbe appartenere a un genere di “evasione”. Da dove e cosa ci stiamo allontanando? E verso cosa ci dirigiamo? Sono domande che possono aiutarci a dare un senso al nostro divagare mentale e al nostro restare in qualche modo nel pensiero, allontanandoci dalla realtà materiale, individuandone la direzione.

E quale può essere la direzione per uscire da questa mente-labirinto? Alexander Lowen, creatore dell’analisi bioenergetica (una psicoterapia a mediazione corporea), scriveva: «La sola via d’uscita è verso il basso», ovvero dalla mente al corpo, e quindi alla terra, grazie al processo di radicamento.

Tornando ai film, questa direzione è descritta magistralmente nel capolavoro di Wim Wenders «Il Cielo sopra Berlino», in cui un angelo desidera diventare umano e rinunciare dunque alla sua immortalità, per amore di una donna, ma anche per vedere i colori, sentire i sapori e gli odori. È bellissimo e sorprendente vedere cosa gli angeli si raccontano l’un l’altro delle loro giornate a sorvegliare gli umani: non gesti eclatanti, ma piccoli atti di quotidiana meraviglia, descritti anche grazie alla penna di Peter Handke, Nobel per la letteratura, che ha contribuito alla sceneggiatura.

Questo è molto in linea con l’esperienza corporea che si fa in analisi bioenergetica, in cui il corpo è vivo e vibrante, grazie allo scioglimento di tensioni che in quest’ottica sono sempre sia corporee che psichiche, e alla libertà raggiunta dal dissolversi di quella gabbia che ci siamo autoimposta, nostro malgrado, per sopravvivere alle difficoltà che abbiamo incontrato nella nostra vita. Sull’esperienza dell’essere un corpo, mi risuonano alcuni versi di Mariangela Gualtieri: «Sii dolce con me. Sii gentile. / È breve il tempo che resta. Poi / saremo scie luminosissime. / E quanta nostalgia avremo / dell’umano. Come ora ne / abbiamo dell’infinità. / […] La vita ha bisogno / di un corpo per essere e tu sii dolce / con ogni corpo».

Una nota a margine: ho visto questo «Il Cielo sopra Berlino», recentemente restaurato, in un cinema che fino a pochi anni fa non esisteva, Lo Spazio Bianco in via Daste e Spalenga. Un segno che non tutto, nel mondo, si muove unilateralmente in una sola direzione (che spesso crediamo sia verso il peggio).

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