Quando quattro anni fa iniziai a raccontare delle scorribande sui nostri monti, uno dei primi articoli fu dedicato alla Val Sambuzza. Nella mia mente era rimasta come un’opera incompiuta perché non ci eravamo spinti oltre il Passo di Publino a causa di nuvoloni minacciosi. Ecco che ai primi di luglio giunge l’occasione di proseguire l’itinerario andando a sconfinare in terra valtellinese per chiudere il giro ad anello rimasto nel cassetto, attraverso un percorso di grande spessore naturalistico e storico.
Eviterò pertanto di concentrarmi sulla descrizione della prima parte dell’itinerario soffermandomi più sulla seconda, quella “oltre” la Val Sambuzza. La comitiva di questo itinerario è ben allenata e la giornata decisamente favorevole così propongo il giro in giornata. Essendo il percorso piuttosto lungo e impegnativo (25 chilometri con 2.000 metri di dislivello positivo) suggerisco, a chi non è avvezzo a certi dislivelli, di spezzare l’itinerario in due parti, prevedendo un pernotto presso il bivacco Pedrinelli al Passo di Publino. Il bivacco è in ordine e ben attrezzato, occorrono pertanto solo un sacco a pelo, una piccola scorta di cibo e acqua.
Partiamo alle luci dell’alba dal borgo brembano di Carona (1.110m) incamminandoci sulla strada diretta ai rifugi Longo e Calvi. Mi preme fare una precisazione in merito alla toponomastica di Carona: quattro anni fa suggerii un’interpretazione romantica del nome del paese ma, dopo alcuni approfondimenti, mi permetto di dare un’altra versione: allora proposi la suggestione ca-rüna dove rüna nella lingua arcaica dei popoli a nord delle alpi significa misterioso, segreto. Oggi propendo invece per la voce preistorica kar, stagno, con il suffisso -ona dal celtico on, ion per luogo di abitazione. Pertanto risulterebbe «luogo della palude», confermato proprio dall’esistenza di uno stagno nel punto in cui oggi si trova il lago e testimoniato da Giuseppe Menzini, cartografo all’ordine del regno lombardo-veneto, nella sua cartina del 1818.
In pochi minuti raggiungiamo l’incantevole contrada di Pagliari (1.314m), ancora assonnata, e provvediamo a fare scorta d’acqua. Superata la rigogliosa cascata della Val Sambuzza, ci spingiamo fino alla località Dossi (1.475m), dove imbocchiamo il sentiero CAI 209 diretto al Passo di Publino. Il nome Sambuzza, così simpatico e frizzante, è probabilmente legato alla pianta del sambuco un tempo piuttosto diffuso nella porzione bassa di suddetta valle. Il sentiero si dipana sulla sponda orografica sinistra della valle salendo con pendenza molto regolare, caratteristica tipica delle mulattiere militari. Così, senza affanno, giungiamo al cospetto del lago di Val Sambuzza (2.081m), luccicante specchio d’acqua cristallina. Il sentiero attraversa il ruscello portandosi sull’altro lato della valle. A un tiro di schioppo dal lago si trova la baita Lago (2.090m), superata la quale, si giunge a un bivio: sulla sinistra si stacca la variante 209A che, con un ampio semicerchio, raggiunge i laghetti di Caldirolo (2.254m), tre piccoli gioielli di rara bellezza; proseguendo dritti invece si guadagna direttamente il Passo di Publino transitando nei pressi del lago di Varrobbio (2.272m), altra meraviglia della Val Sambuzza.
I due sentieri si ricongiungono poco prima del bivacco Pedrinelli (2.353m), realizzato sui resti di una casermetta militare, avamposto della linea Cadorna a difesa del Passo di Publino (2.368m). Il versante valtellinese del valico si presenta assai roccioso e inaccessibile, difficilmente l’esercito austro-ungarico sarebbe riuscito a penetrare in Lombardia transitando da qui.
Al Passo di Publino il panorama si apre sulla valle del Livrio, sulla Valtellina e sule Alpi Retiche con il gruppo del Bernina a fare da sfondo. Tuttavia, per scollinare in Valtellina, è necessario alzarsi ancora di quota sino ai 2.430m, dove il sentiero inizia a scendere in Val del Livrio (rimanendo invece sul sentiero del crinale si raggiunge la cima del Pizzo Zerna). Solo da questo punto si riesce ad intravedere il lago di Publino: anticamente erano due laghetti finché, nel 1953, venne realizzata la diga che portò alla formazione di un bacino unico. Attraverso un canale sotterraneo le sue acque sono convogliate al lago di Venina, nella valle parallela. Quest’anno l’invaso è insolitamente povero d’acqua, restituendo ai laghetti la forma originale.
Prima di sconfinare in Valtellina avevo avvisato i compagni di escursione: «Non ci si può definire “escursionisti esperti” finché non ci si avventura sui sentieri delle Orobie valtellinesi!» ed effettivamente anche questa volta non vengo smentito dai fatti: i segnavia sono rari e molto sbiaditi, il fondo è spesso rovinato dalle intemperie e invasi dalla vegetazione. La via va ricercata con attenzione, fidandosi più degli ometti che della labile traccia. In questa incertezza i tempi di percorrenza si dilatano notevolmente. Non bisogna nemmeno contare sulla presenza umana perché è praticamente nulla così come è meglio non affidarsi alla connessione dei telefonini, molto ballerina e spesso inesistente (consiglio di scaricare le mappe per uso offline prima di partire). Tuttavia questi aspetti rendono l’esperienza intrigante ed avventurosa. A dare conforto agli escursionisti sono stati posizionati alcuni cartelli nei punti chiave.
Detto ciò, iniziamo la discesa sapendo che il nostro prossimo obiettivo è proprio il lago di Publino. Un po’ a istinto e un po’ a logica guadagniamo le rive del lago (2.132m), dove notiamo che il sentiero principale si abbassa decisamente di quota passando al di sotto della diga. Decidiamo così di rimanere più alti, sulla traccia che conduce allo sbarramento. E qui comprendiamo perché il sentiero si abbassava: l’accesso alla diga è sbarrato da un cancello. Tornare indietro? Giammai! Così cerchiamo di ingegnarci per superare l’ostacolo. Osservando bene il cancello si intuisce che non siamo stati i soli a fare quest’errore infatti qualche anima buona ha aperto un piccolo pertugio per oltrepassare il cancello. Così, con una rispolverata all’agilità di un tempo…óp là, ci ritroviamo a camminare sulla diga. Naturalmente la stessa manovra è necessaria anche sul lato opposto ma ormai nulla ci può intimorire, nemmeno la presenza lontana di un pescatore sulla riva del lago.
Nel mio progetto iniziale era prevista una sosta splash sulle rive del lago ma la scarsità d’acqua ci fa desistere. Poco oltre la diga c’è il rifugio Caprari, una struttura in autogestione del CAI di Sondrio che ha un minuscolo locale d’emergenza con un letto a castello e una sedia, nulla di più. Un rubinetto d’acqua ci consente di riempire le borracce. Sul basamento esterno al rifugio notiamo una curiosa toilette alla turca “a cielo aperto”, con vista maestosa e contemplativa sul gruppo del Disgrazia e del Bernina.
Procediamo in direzione Nord puntando la baita dello Scoltador, a pochi minuti dal rifugio. Siamo sul sentiero GVO (Gran Via delle Orobie) alias sentiero Bruno Credaro, un’Alta Via che parte da Delebio e arriva all’Aprica attraverso tutta la catena delle Orobie valtellinesi: 150km con 13.000m di dislivello da effettuarsi in totale autosufficienza, un’avventura nella natura più selvaggia.
Alla baita un cartello indica il bivio per il Passo dello Scoltador, nostra prossima meta. Il cartello è evidente, il sentiero molto meno…così seguendo qualche bollo sbiadito e qualche ometto iniziamo la risalita. Un giovane camoscio ci saltella davanti agli occhi prima di dileguarsi nelle vallette sopra il lago. Il Passo dello Scoltador si intravede sopra di noi ma la traccia è tanto labile che ci ritroviamo sparpagliati per il pendio ciascuno a seguire la propria logica di percorso. Nulla di pericoloso, ma solo in cima (2.453m), scrutando dall’alto, ci accorgiamo che il sentiero ufficiale (GVO) passa bello evidente sulla destra rispetto alle nostre intuizioni (salendo tenere la destra rispetto al passo). Dal valico la vista contempla tutta la Val Venina, lunghissima, come il suo lago. È un invaso artificiale realizzato negli anni ‘20 del secolo scorso con una diga ad otto archi e nove contrafforti, avveniristica per il periodo ed unica nel suo genere. Una breve sosta al passo e poi giù in val Venina.
Nel primo tratto di discesa il sentiero è un po’ malmesso ma comunque percorribile. Ci abbassiamo di quota accompagnati dai fischi delle marmotte e dagli sguardi sorpresi di alcuni camosci incuriositi dalla presenza umana. Il toponimo Venina deriva dalla parola vena, riferito alla vena del ferro, assai abbondante in questa valle. A tal riguardo vale la pena ricordare un antico detto valtellinese: «La àl de piö la val Venina de tota la Valtulina» (vale di più la Val Venina di tutta la Valtellina) con chiaro riferimento all’importanza che rivestivano un tempo l’estrazione e la lavorazione del ferro. Con tutte le conseguenze dello sfruttamento minerario perché, per alimentare i forni fusori in quota, occorreva parecchia legna e cosi tutte le selve che ricoprivano la valle vennero tagliate a raso sconvolgendo il paesaggio naturale (identica sorte toccò alle vallate delle Orobie bergamasche, dove la quota boschiva a fatica arriva a 1.600m mentre in altre zone alpine e prealpine si spinge anche oltre i 2.000m).
La discesa termina con un lungo traverso pianeggiante, ciò che rimane di un vecchio percorso dei minatori che conduce all’antico forno fusorio in località «La Vena» (2.185m): un possente manufatto cilindrico che serviva come prima lavorazione del minerale estratto dalle miniere. Tali miniere vennero sfruttate a partire dal 1300 e le operazioni estrattive si protrassero fino al 1874, anno della cessazione definitiva di ogni attività mineraria in Val Venina. D’intorno si notano ancora i residui dei materiali di scavo e le rocce di colore bronzeo e grigie, quasi nere. Il contesto è lunare ed è quasi come se il tempo si fosse fermato al 1874.
Al forno fusorio il sentiero GVO prende la via del Passo Brandà mentre noi procediamo in direzione Sud lungo l’evidente (finalmente…) sentiero che sale al Passo di Venina. Una mezzoretta di affanni, più per la fatica accumulata che per le pendenze mai eccessive, ed eccoci risalire i margini di una lingua di neve in prossimità del Passo (avevamo portato con noi i ramponcini ma non sono stati necessari). Il Passo di Venina (2.442m) è un angusto intaglio roccioso che ci proietta in Val Brembana, conferendoci quella sensazione di ritorno a casa tipica di quando si fa ritorno nella terra natale dopo un lungo viaggio. Al valico manteniamo la destra, ignorando i segnavia del «Trofeo Longo», gara alpinistica che catapulta i concorrenti in un ghiaione ripido e insidioso. Seguiamo invece i bolli bianco/rossi del sentiero CAI 254 diretto al rifugio Longo. Si sale il crinale ancora pochi metri e, dopo un traverso tra facili roccette, inizia la discesa verso il rifugio.
La giornata è assai calda e, non essendo riusciti a fare la puciatina al lago di Publino, optiamo per un tuffo nelle acque del lago del Diavolo. Così, raggiunto un dossetto a quota 2.200m, deviamo a sinistra per la traccia pianeggiante che segue la condotta di alimentazione del lago del Diavolo. È un percorso assai divertente con il passaggio attraverso una piccola galleria e alcuni tratti a sbalzo sulle rocce (assicurati con catene) che termina in prossimità della diga (2.142m). Ci precipitiamo in riva al lago anch’esso insolitamente basso e senza troppi formalismi…splash!... un tuffo rigenerante e nemmeno tanto ardito perché l’acqua è sorprendentemente calda al punto che riesco a rimanere a mollo per dieci minuti. La conca del lago del Diavolo è meravigliosa, acque cristalline in cui si specchiano le severe cime del Pizzo di Cigola e del Monte Aga (2.720m).
Rinfrancati nel fisico e nell’animo ci portiamo al rifugio Longo (2.025m) per il meritato pranzo. Le ore 14 sono passate da un po’ ma i gestori, gentilissimi, riescono a soddisfare appieno le nostre brame fameliche. Il sole è ancora alto in cielo e con grande calma ci incamminiamo sulla via del rientro a Carona. In cuor nostro la soddisfazione di aver portato a termine un giro decisamente impegnativo ma molto gratificante da ogni punto di vista.
P.S. l’itinerario qui descritto è lungo 25km con circa 2.000m di dislivello positivo, calcolare 8/10 ore di cammino. È riservato ad escursionisti esperti e con un ottimo grado di allenamento. A chi è meno preparato suggerisco il pernotto presso il bivacco Pedrinelli al passo di Publino. È sconsigliato avventurarsi sul percorso in caso di nebbia o maltempo.
Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli.