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Conferenza Oceani: il risultato è una «promessa fragile ma condivisa»

Il bilancio della terza Conferenza delle Nazioni Unite a Nizza con oltre 50 leader mondiali e 1.500 delegati da 200 Paesi. Impegni non vincolanti nel Piano d’azione firmato dai governi. L’Italia non ratifica il Trattato sull’alto mare

La città di Nizza ha ospitato la terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano, con il proposito di accelerare l’azione per l’attuazione dell’Obiettivo 14, sulla vita sottomarina, dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

«Una promessa fragile ma condivisa» è stato il commento dell’Onu al termine dei cinque giorni, dal 9 al 13 giugno, del vertice, che ha portato al tavolo della discussione oltre 50 leader mondiali e 1.500 delegati provenienti da 200 Paesi. L’esito della conferenza è stato la stipula di una dichiarazione politica comune firmata dai governi: «Il piano d’azione di Nizza per gli oceani». Nulla di vincolante sul piano giuridico, ma una serie di impegni condivisi. «Si tratta di una dichiarazione di intenti, volontaria, che si sarebbe potuta tradurre in qualcosa di più ambizioso», commenta Tosca Ballerini, biologa marina e giornalista freelance, che ha seguito i tavoli di discussione di Nizza.

Biodiversità, il quadro globale

Bisogna vedere, però, anche il bicchiere mezzo pieno. Un passo avanti è stato compiuto con il Trattato sull’alto mare, la cui ratifica rappresenta uno step indispensabile per raggiungere il cosiddetto «obiettivo 30x30», concordato nel quadro globale per la biodiversità di Kunming-Montreal: proteggere entro il 2030 il 30% degli ecosistemi marini nel mondo, inclusi quelli in alto mare. Si fa riferimento alle acque internazionali che non rientrano nella giurisdizione nazionale degli Stati: quelle che si trovano oltre le 200 miglia nautiche dalle coste (370 chilometri) e che costituiscono oltre il 60% degli oceani del mondo. «Il trattato conferisce la possibilità a uno Stato di proporre la creazione di un’area marina protetta – prosegue la biologa –. Quindi, da un lato la sua accelerazione è un passo avanti, ma la parte mancante, qualora il trattato dovesse entrare in vigore, sono le procedure necessarie a istituire un’area protetta». Altri diciannove Paesi hanno ratificato l’accordo durante il vertice di Nizza, facendo così salire il numero degli Stati aderenti a un totale di 50. Ne mancano ancora dieci per raggiungere la soglia, fissata a sessanta, affinché diventi vincolante.

Lo stallo dell’Italia

L’Italia è tra i Paesi che non lo hanno ancora ratificato, nonostante il Mar Mediterraneo, già «hotspot» del riscaldamento globale, detenga diversi primati negativi: è uno dei mari più inquinati al mondo a causa di sversamenti di idrocarburi e plastiche e uno dei più sfruttati, dove l’85% delle specie è sovrapescato. «La conferenza ha dato una spinta alle ratifiche – commenta Valentina Di Miccoli di Greenpeace – ma sarebbe stato utile arrivare già con le 60 ratifiche richieste, perché avrebbe permesso di parlare di come mettere in atto quel trattato, di quali aree siano da tutelare, di chi si prenderà in carico la salvaguardia. Siamo ancora molto indietro rispetto al prendere decisioni concrete e vincolanti».

Nel report di Greenpeace «Mediterraneo da proteggere» si legge che la percentuale di aree marine protette dall’Italia nel Mare Nostrum è inferiore all’1%, a differenza di quanto sostiene il conteggio del governo, secondo cui è l’11,6% a essere protetto. «Questo perché ha inserito una serie di aree, come i Siti Natura 2000 o il Santuario dei cetacei che sulla carta sono luoghi preziosi, biologicamente rilevanti e ricchi di biodiversità – prosegue i Miccoli –, ma nel concreto non dispongono di alcuna regolamentazione che mitighi gli impatti antropici. Greenpeace, invece, considera aree protette solo quelle in cui la pesca è vietata o strettamente regolamentata».

Di fronte alla lentezza e alla paralisi dei decisori politici, la mobilitazione e la perseveranza della società civile fanno ben sperare: «È stato rincuorante vedere le organizzazioni non governative, la comunità scientifica, i ricercatori e gli attivisti lavorare per portare al tavolo soluzioni, che esistono, ma che spetta ai governi attuare», conclude Tosca Ballerini.

Misurare gli impatti industriali

Misurare l’impatto delle attività industriali sugli ecosistemi marini è l’obiettivo dell’«Ocean Impact Initiative», lo strumento presentato, in occasione del Blue Economy Forum di Monaco, dalla One Ocean Foundation, organizzazione non profit, impegnata nella tutela dell’oceano e nella conservazione degli ecosistemi marini attraverso la promozione della blue economy.

Dalla pesca alle microplastiche

«È uno strumento frutto di un lavoro di studio in collaborazione con l’Università Bocconi, McKinsey & Company e il centro di ricerca spagnolo Csic – spiega Jan Pachner, segretario generale della fondazione, nata nel 2018 –. Abbiamo condotto un’analisi: solo il 9% delle aziende globali riporta il proprio impatto sull’obiettivo di sviluppo sostenibile 14. Per un’azienda, invece, investire in azioni che vanno a proteggere gli ecosistemi marini può rappresentare una valida alternativa per differenziarsi tra i competitor». In che modo le aziende valutano il proprio impatto? «Il “tool” offre alle imprese la possibilità di verificare la propria impronta ambientale e confrontare il proprio impatto a livello settoriale. Ci sono aziende che hanno impatti diretti, come la pesca, oppure indiretti, come l’inquinamento da microplastiche – prosegue Pachner –. Inoltre, lo strumento si fonda su una piattaforma scientificamente solida e sullo studio dei bilanci di sostenibilità delle aziende, oltre a servirsi dell’innovativo uso dell’intelligenza artificiale generativa per analizzare paper scientifici e dati».

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