Lo scrittore statunitense Kurt Vonnegut nei suoi discorsi ai laureandi cita spesso suo zio Alex che, in momenti semplicemente piacevoli, come bersi una limonata all’ombra, era solito dire «Cosa c’è di più bello di questo?». Vonnegut raccomanda ai giovani laureandi di rendersi conto quando sta succedendo qualcosa di bello di prestarci attenzione, un po’ come nella pratica del noting nella meditazione mindfulness , in cui semplicemente si nomina quello che sta succedendo in noi. Da qui il titolo, azzeccassimo, della traduzione italiana del suo libro: «Quando siete felici, fateci caso».
Ma come farci caso? Mi è capitato di incontrare persone che non sapessero dire se fossero felici. Pensavano di esserlo, o di non esserlo. E probabilmente qui sta uno dei primi inghippi. Diamo in genere troppa fiducia al pensiero come unica fonte della nostra conoscenza, ma per certe cose non è lo strumento adatto: certe cose non vanno pensate, ma, giocando con le parole, vanno “sensate”, ovvero sia percepite con i sensi che attribuite di senso. A volte ci si chiede se qualcosa abbia un senso, e questo è un altro inghippo: le cose non hanno un senso, ma chiedono che gliene sia dato uno, e questo è un compito personale e esistenziale che possiamo e a volte dobbiamo darci. Non credo esista un senso dato a priori, ma sono convinto che spesso sia un impegno che valga la pena assumersi, per dare un senso, appunto, una direzione, a ciò che ci succede, dove «ciò che ci succede» è, semplicemente, la vita.
Sull’aspetto del sentire: come scrivevo, il pensiero è uno strumento potentissimo per risolvere molti problemi, ma quando si tratta di emozioni o sentimenti, non è la scelta migliore. Dobbiamo passare dal pensare o credere, al sentire, ricercando una sorta di «oggettività soggettiva» che ci può venire da sensazione e sentimento, due «funzioni psichiche», come le definiva Carl Gustav Jung che ci permettono di sentire con strumenti diversi: la sensazione attraverso gli organi di senso e il sentimento attraverso un volgere l’attenzione a ciò che si muove dentro di noi (etimologicamente «emozione» indica qualcosa che si muove da dentro verso l’esterno).
Probabilmente il sovra investimento attuale nella funzione psichica del pensiero è legato alle necessità di sopravvivenza che sono evolutivamente cambiate (fortunatamente non dobbiamo più rincorrere prede o fuggire da predatori per sopravvivere). Questo sovra investimento, però, ha portato come effetto collaterale una sorta di «analfabetismo emotivo» di ritorno: non sappiamo nominare e riconoscere le emozioni che proviamo e quando qualcosa ci attiva, ci mettiamo a pensare o cerchiamo di capire cosa ci sta succedendo invece che provare a sentirlo. Per «far caso» di «essere felici», come suggeriva Vonnegut, dobbiamo prima sapere cos’è la felicità per poi poterla riconoscere, e lo stesso vale per le altre emozioni. A volte mi capita di sentire come commento a un film o a un evento «mi ha emozionato», o «emozionante!». Va bene, ma quale emozione? Disgusto o sorpresa, per citare solo due delle emozioni di base, sono ben diverse.
Come “capire” se si è felici, allora? Chiediamo al corpo, portiamo la nostra attenzione al corpo. In una pagina di «Parole in cammino», intitolata «Finestra sul corpo», Eduardo Galeano scrive che «La pubblicità dice: il corpo è un affare», e anche Pier Paolo Pasolini, in una delle sue ultime interviste, a proposito del suo ultimo film, «Salò», lo definiva una metafora di come il potere mercifichi i corpi. Ma Galeano aggiunge che «Il corpo dice: io sono la festa». Possiamo provare a sentire quanta festa c’è nel nostro corpo, confrontarla con momenti di gioia indiscutibile che abbiamo provato. Certo, mi rendo conto che a volte il corpo non risponde, non funziona o gioca scherzi e possiamo avere problemi di salute che compromettono il rapporto fra noi e il nostro corpo, tuttavia in generale portarci l’attenzione ci può dare un riscontro più «soggettivamente oggettivo» di come stiamo. Quando stiamo male o abbiamo dolore, il corpo urla ed è facile sentirlo e dargli attenzione, ma non è detto che non lo si possa fare anche in momenti di quiete o benessere.
Saper identificare cosa sentiamo è di fondamentale importanza, e si compone di più passaggi: come prima cosa bisogna portare l’attenzione al sentire, e poi riconoscere quello che si sente e saperlo identificare. Già dare una prima connotazione, piacevole o spiacevole, ci può dare una direzione. Mi capita spesso di sentire definire un’attivazione fisiologica dovuta a qualche evento importante come «ansia», e quindi attribuita di un’etichetta clinica, se non addirittura patologica. Il rischio è di fare come Amelie, la protagonista dell’omonimo film, che si emozionava quando il padre, altrimenti restio al contatto, le auscultava il cuore, che ovviamente iniziava a battere più velocemente, e finiva per esser considerata in qualche modo cardiopatica dal padre, evidentemente incapace di riconoscere la gioia della figlia. E di ritrovarsi, quindi, a vivere come se avessimo una cardiopatia, senza averla, come se ci difendessimo da qualsiasi attivazione a priori.
Spesso la poesia riesce a descrivere più puntualmente i sentimenti, proprio per le sue caratteristiche irrazionali e analogiche. Una che trovo molto precisa è questa, di Mariangela Gualtieri (presente in questo libro): «Meraviglia dello stare bene/quando le formiche mentali/non partoriscono altre formiche/e si sta leggeri come capre sulla rupe/della gioia». Mi trasmette pienamente l’idea di quella sospensione, pienezza e brivido, legata a qualcosa di bello che sta accadendo o sta per accadere, come mi immagino quelle capre di montagna, padrone di sé in cima a una rupe e pronte a lanciarsi in salti incredibili, sicure delle proprie zampe.
In film che cito spesso, «Hector e la ricerca della felicità», il protagonista, uno psichiatra in crisi che intraprende un viaggio intorno al mondo per capire cos’è la felicità, dice a un lama himalaiano che abbiamo il diritto di esser felici. Il lama gli risponde di pensare più alto: abbiamo il dovere di esser felici. Può sembrare difficile, se non utopistico, anche solo immaginare la gioia in un tempo carico di eventi drammatici come quello che stiamo vivendo. Ma, se questo mondo non ci piace, tornando allo zio di Vonnegut, «cosa c’è di più bello» di una rivoluzione?
In una #psicogeografia di qualche tempo fa, scrivevo della «rivoluzione silenziosa» intrapresa da chi fa un lavoro su di sé. Sicuramente anche la gioia è rivoluzionaria, e in parte ne scrivevo a proposito della «gioia collettiva» descritta da Barbara Ehrenreich. Andrea Colamedici, saggista, editore e cofondatore di Tlon, in un recente articolo scrive con ammirazione delle recenti proteste tenutesi negli Stati Uniti d’America, con i manifestanti mascherati con assurdi costumi da ranocchie o personaggi di cartoni animati. Episodi probabilmente molto più efficaci di altri più violenti e che hanno un forte impatto sull’immaginario: vedere forze dell’ordine in assetto anti sommossa da una parte e unicorni e simili dall’altra è sicuramente spiazzante e positivamente disorientante! Porre la gioia di fronte a una forza che si sente oppressiva, riempire le piazze ballando e cantando, colorandole: «Cosa c’è di più bello di questo?».
Ripensando, mentre scrivevo queste righe, ad alcuni momenti di gioia che ricordo molto vividamente (una «Rond de Saint-Vincent» particolarmente coinvolgente ballata in un festival nei monti occitani o il trovarmi su una strada bianca, zaino in spalla, alla partenza di un viaggio a piedi, ma anche un raggio di sole nel momento e nel posto giusto, per fare alcuni esempi), nella maggioranza dei casi si tratta di qualcosa vissuto nello scorrere del tempo, e comunque di esperienze e mai di ottenere cose o oggetti. Per questo la gioia provata nel corpo, in quanto a portata di mano e gratuita, va in una direzione contraria alla tendenza consumistica di questa epoca, e anche per questo è intrinsecamente e visceralmente rivoluzionaria: ci viene da dentro e non da qualcosa che acquistiamo dal fuori.
La gioia può essere come qui fiori che rompono il grigiore dell’asfalto: piante infestanti. La gioia in/festa, porta la festa nello status quo. Uno degli ultimi libri scritti da Alexander Lowen, creatore della psicoterapia corporea che definì «analisi bioenergetica», nell’originale inglese si intitola proprio «joy», gioia. La traduzione italiana usa come titolo il sottotitolo originale, che è anche un invito a: «arrendersi al corpo» (che, ricordiamolo, dice «io sono la festa»).
