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Psicoterapia online, benvenuti nel futuro

La relazione tramite i dispositivi è diventata normale, e ora la sfida dell’intelligenza artificiale pone interrogativi

Ora il rischio è che l’evoluzione tecnologica spinga verso forme di «auto-aiuto» guidate dall’intelligenza artificiale: chatbot terapeutici, app, assistenti virtuali che, interrogati, articolano risposte e consigli verosimili e, forse, persino convincenti. Ma può una macchina comprendere davvero il dolore umano? E soprattutto: che cosa perdiamo, in termini relazionali, quando non c’è più un’altra persona in carne ed ossa dall’altra parte? Lo abbiamo chiesto a Matteo Lancini, psicoterapeuta e direttore del Centro Il Minotauro, che da più di quarant’anni svolge attività di prevenzione del disagio evolutivo, consultazione e psicoterapia nelle diverse fasce del ciclo di vita, secondo un modello di psicologia evolutiva psicoanalitica.

Reale e virtuale possono convivere serenamente?

«Non si può più separare il reale dal virtuale. Viviamo in una società “onlife”, come la definisce Luciano Floridi: un mondo in cui l’esperienza online e quella offline sono intrecciate in modo indissolubile. Attribuire alla tecnologia o ai social la responsabilità di certe trasformazioni psichiche è una scorciatoia. Il vero cambiamento è sistemico. Pensiamo solo a quanto è cambiata l’identità femminile, o alla procreazione medicalmente assistita, che ha scardinato l’equivalenza tra sessualità e generazione. È un’intera società che è mutata, non solo gli strumenti».

Come è cambiata la relazione con lo psicoterapeuta?

«In questo contesto, l’accesso alla psicoterapia si è modificato. Lo stigma si è ridotto, anche grazie a decenni di lavoro nelle scuole, e la rete è diventata un luogo in cui i giovani chiedono, cercano, si raccontano. Non è sempre un male. Ma la relazione d’aiuto, proprio perché è cambiato tutto il contesto relazionale, va ripensata. Recentemente sono emersi studi sull’uso di chatbot – come Tess o Woebot – affiancati al percorso terapeutico, con risultati clinicamente significativi nella riduzione dello stress».

Possono davvero integrare o, in qualche modo, sostituire la figura del terapeuta?

«Non lo sappiamo ancora. Quello che è certo è che siamo dentro un cambiamento enorme e rapidissimo. Dopo anni di dibattito sulla terapia online, oggi è normale seguire adolescenti via telefono. Ma un conto è parlare a uno psicologo, anche online, un altro è interagire con qualcosa che non è umano. È una sfida aperta, che richiede studio, prudenza e pensiero critico».

E i mestieri della relazione spariranno davvero come molti temono?

«No, anzi. Credo esattamente il contrario e ci credo profondamente. La relazione umana, intima, complessa, empatica non verrà sostituita. Certo, bisognerà capire come queste nuove modalità – dai chatbot agli avatar – influenzano i nostri modi di entrare in contatto con l’altro. Ma non elimineranno la necessità di essere ascoltati da un altro essere umano. Mi chiedo – e questo è il vero nodo politico e culturale – perché la scuola non aiuti i ragazzi a sviluppare pensiero critico sull’uso di queste tecnologie. Perché non si parla seriamente di come relazionarsi in una società onlife? L’Ia cambierà molte cose, è inevitabile. Ma il modo in cui la vivremo dipenderà anche da come prepariamo le nuove generazioni a integrarla nella loro crescita psicologica ed emotiva». E per fare questo non serve il pensiero di una macchina, ma l’empatia di un educatore.

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