La guerra e il clima si influenzano reciprocamente. La guerra, da un lato, contribuisce alle emissioni che alterano il clima. La guerra, dall’altro lato, rallenta le azioni di decarbonizzazione, indebolendo il contesto di collaborazione per affrontare una sfida così grande. Il cambiamento climatico, poi, moltiplica le minacce che portano spesso alle guerre, perché rende molti territori privi di acqua, desertificati, riduce le risorse, genera migranti. Gli ingredienti si mescolano e, uniti alle varie situazioni di instabilità geopolitica, possono enfatizzare le condizioni che sfociano in conflitti. Ne parliamo con Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr e docente di fisica del clima all’Università Roma Tre. «Oggi le guerre – spiega – non hanno solo gli impatti diretti sui territori, ma anche quelli indiretti sul cambiamento climatico, perché le emissioni di anidride carbonica e altri gas serra del comparto militare sono enormi. Sono tenute segrete: anche se è difficile calcolarle, ci sono stime. In tempi di pace, dal comparto militare mondiale proviene circa il 5,5% delle emissioni totali. Se fosse un Paese, si piazzerebbe al quarto posto dopo Cina, Stati Uniti, India e addirittura prima della Russia. Le emissioni delle sole forze armate americane sono almeno quanto quelle della Svizzera. In tempi di guerra, i dati si aggravano. Per esempio, la guerra in Ucraina ha prodotto, solo nei primi due anni, una quantità di emissioni di CO2 equivalente corrispondente alla metà di quelle annuali di tutta l’Italia. Non solo si bruciano combustibili fossili. Le distruzioni dei territori e gli incendi boschivi tagliano l’assorbimento naturale di anidride carbonica. Bisogna conteggiare anche tutti i costi della ricostruzione post guerra».
Emissioni militari enormi, impatti pesanti sul clima
L’intervista al climatologo del Cnr, Antonello Pasini. I gas serra del comparto militare sono più di quelli di Cina, Stati Uniti e India. Combustibili fossili, territori distrutti, incendi boschivi. E il cambiamento climatico, poi, innesca ulteriori conflitti.
La prima conseguenza delle guerre è sulle vite umane.
«Certo. Ma non dobbiamo calcolare solo le vittime dirette delle guerre. C’è anche una mortalità indiretta, dovuta agli eventi estremi in tutto il mondo, comprese le ondate di calore, determinati dal cambiamento climatico causato dalle emissioni di gas serra. Le guerre, in questo senso, non sono più solo locali, diventano una guerra totale. Sembra proprio che la storia non ci insegni niente. Seguitiamo a utilizzare la parte rettile e predatoria del nostro cervello e a fare guerre, mentre dovremmo evolvere da questa concezione e mettere a frutto la parte più evoluta, perché il cambiamento climatico, come tutti i sistemi complessi, ci insegna l’interrelazione continua tra noi e la natura. Siamo solo un nodo della rete, non i padroni del mondo. Per interagire correttamente con i sistemi complessi, come l’economia globalizzata e il clima, dobbiamo armonizzare la nostra dinamica umana con quella della natura e degli altri uomini, così che, finalmente, per una volta, la storia ci insegni qualcosa».
Le guerre, poi, indeboliscono il contesto di collaborazione necessario per affrontare una sfida così grande come quella climatica.
«Sono esattamente l’opposto di quanto serve per affrontare il problema del cambiamento climatico: il multilateralismo e il concetto di un pianeta dalle risorse finite. Non possono esistere vincitori e vinti: si vince o si perde tutti insieme, il contrario dell’idea della guerra, con i vinti che pagano le conseguenze e i vincitori che pensano di prosperare. Oggi i ricchi sono convinti di prevalere su questo pianeta a scapito dei più poveri, ma non sarà così. Siamo tutti sulla stessa barca: prima affondano i più poveri, poi i più ricchi. Invece, questi ultimi pensano che, se il pianeta si distrugge, andranno su Marte: anche se sembra una battuta, certe persone ci credono davvero. Insomma le guerre sono contro il benessere del pianeta».
L’aggressione della Russia all’Ucraina del febbraio 2022 e la necessità di trovare alternative al gas russo hanno oscurato la transizione ecologica con la sicurezza energetica.
«Un errore. Manca il gas russo? L’Italia pensa di diventare un hub del gas, andandolo a cercare a destra e a manca. Il gas americano dalle rocce di scisto è molto costoso. Quello dei Paesi africani con cui abbiamo stretto accordi non è sicuro, perché non hanno ancora le strutture per esportare il gas liquido. Si cerca di tamponare l’emergenza aggravando la crisi climatica internazionale di lungo periodo. Non abbiamo una visione lungimirante, perché diventare un hub del gas significa continuare a bruciare combustibili fossili, la causa principale delle emissioni di gas serra. Perché non diventiamo un hub delle rinnovabili? Stiamo perdendo l’una dopo l’altra le opportunità di cambiamento, dal Covid alla guerra in Ucraina.

Dovevamo varare altri piani. C’erano 60 gigawatt di rinnovabili in attesa di autorizzazione. Se si fossero sbloccati rapidamente, in un paio d’anni avremmo avuto parchi fotovoltaici ed eolici, non aggravando la crisi climatica di lungo periodo. Il sistema è complesso: noi, invece, guardiamo all’effetto immediato su un singolo problema. L’emergenza del gas? La risolviamo trovandolo da un’altra parte. Non abbiamo risolto un accidenti, perché aggraviamo la crisi di lungo periodo. Manca la cultura della complessità, nella classe politica e nella classe economica».
Il cambiamento climatico, poi, è un moltiplicatore delle minacce che portano alle guerre.
«Certo, c’è anche l’influenza del cambiamento climatico sulle guerre. Quando si riducono le risorse idriche, diventa difficile convivere sulla stessa terra. In Africa lo vediamo per i pastori e gli agricoltori vicini al lago Ciad: quando il bacino aveva una certa estensione, c’era l’acqua per tutti, ora non più. Il nesso tra desertificazione, conflitti, migrazioni è evidente nel Sahel. Si innescano lotte per le risorse, che poi si estendono e diventano transfrontaliere, come tra Egitto, Sudan e Etiopia per la grande diga di quest’ultimo Paese che sbarra il corso del Nilo».
Si farà in Italia il Consiglio scientifico sul clima?
«È in fase di stallo. Nel 2022 tutte le forze politiche hanno firmato un accordo pre-elettorale per la costituzione del Consiglio scientifico clima e ambiente, promosso dal comitato che coordino, La Scienza al Voto. La polarizzazione sul cambiamento climatico fa sì che la situazione non si sblocchi. Ma il clima non ha colore e impatta su qualsiasi visione del mondo. Il problema è da affrontare tutti insieme, con uno zoccolo duro di azioni da compiere. I politici hanno il limite temporale della legislatura: devono essere affiancati da un Consiglio indipendente di scienziati, consulente di governo e Parlamento, con una visione di lungo periodo. Il mio appello è alla politica, perché pensi al bene del Paese e non a quello del proprio orticello».
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