Burger button

Carne da coltivazione delle cellule animali, lo scenario

I prodotti commerciali ne hanno un contenuto intorno al 10%, il resto sono proteine vegetali. Il processo avviene in bioreattori e a partire dalle cellule staminali o prelievi da muscolo, fegato e altri tessuti. In Europa è accettata solo la replica del fegato d’anatra, perché la produzione naturale è cruenta.

Non solo alghe, meduse e insetti: il cibo del futuro potrebbe essere sintetico. Mentre l’iter burocratico per l’arrivo delle carni coltivate in laboratorio nei supermercati procede spedito, il dibattito pubblico è stato polarizzato dal durissimo contrasto tra i sostenitori e i detrattori di queste nuove proteine. Ma che cosa sono, esattamente, le carni sintetiche? Rispondono Andrea Scaloni, direttore dell’Istituto per il sistema produzione animale in ambiente mediterraneo (Ispaam) del Cnr, e Cesare Gargioli, professore di Biologia applicata all’Università degli studi di Roma Tor Vergata.

Qual è la differenza tra carne sintetica e carne coltivata in laboratorio?

A.S.: «Si tratta di due sinonimi, ma attenzione: il termine “carne sintetica” ha una connotazione negativa. Entrambi, però, sono utilizzati per descrivere prodotti che contengono cellule animali cresciute in laboratorio. I prodotti commerciali che le utilizzano ne hanno un contenuto molto basso; la parte derivata da colture cellulari è intorno al 10%, mentre il resto è di fatto composto da proteine vegetali. Questo perché i costi della crescita delle cellule animali restano assai alti».

Come si ottiene la carne coltivata in laboratorio?

A.S.: «Il processo prevede di far crescere e moltiplicare delle cellule all’interno di appositi reattori. Le colture possono essere realizzate a partire dalle cellule staminali, o da cellule differenziate prelevate da muscolo, tessuto adiposo, fegato e altri tessuti. Il processo di coltivazione avviene quindi in bioreattori, sistemi sterili ove vengono forniti alle cellule i nutrienti necessari per crescere e replicarsi. Al momento, molti di questi ingredienti sono di origine animale; si spera che in futuro questi possano essere sostituiti da derivati di origine vegetale. Dopo aver ottenuto un numero sufficiente di cellule, bisogna stratificarle e assemblarle; per simulare la carne vengono di solito combinate le cellule del muscolo a quelle del grasso. Questo processo può essere eseguito in molti modi diversi: noi stiamo testando la stampa 3D, che permette di combinare cellule di muscolo e di grasso, replicando la consistenza e il sapore dei diversi tagli di carne».

Avete parlato di prodotti commerciali. A quali mercati vi riferite?

C.G.: «Agli Stati Uniti e a Singapore, principalmente: in questi Paesi, le carni coltivate possono essere vendute nei negozi e consumate nei ristoranti. Anche in Israele è possibile mangiare carne sintetica, ma solo in pochi locali. In Europa, invece, vendita e consumo sono proibiti. C’è un solo prodotto accettato dalle autorità europee: è una replica del foie gras. È stato approvato perché le metodologie tradizionali per la produzione di fegato d’anatra sono cruente, al punto da essere state messe fuorilegge in alcuni Paesi del mondo».

Quali sono le principali sfide che il settore delle carni sintetiche deve ancora affrontare?

A.S.: «La ricerca deve permettere di arrivare a prodotti che contengano almeno il 50-60% di carne coltivata. Solo quando li avremo realizzati, capiremo se si tratta di una via sostenibile sia dal punto di vista economico che da quello ecologico. Resta da capire quanto costerà produrre carni completamente coltivate e se sarà possibile farlo eliminando gli ingredienti di origine animale, che utilizziamo nei bioreattori. Il rischio, altrimenti, è quello di arrivare a un risultato paradossale, cioè di sviluppare un prodotto con lo scopo di ridurre la sofferenza animale partendo, però, da ingredienti di derivazione animale».

C.G.: «Un altro nodo sul quale si dovrà ancora molto lavorare è quello del consumo di energia e dell’inquinamento. La produzione di proteine sintetiche ha degli indubbi vantaggi ambientali rispetto alle carni tradizionali. Le emissioni di gas serra sono ridotte, e lo stesso vale per l’inquinamento dei suoli e delle falde acquifere. Ma dobbiamo ancora ben capire se la CO2 in atmosfera e i consumi energetici associati risultino altrettanti bassi. Infine, c’è da valutare la scalabilità delle produzioni; finora siamo stati abituati a condurre i nostri esperimenti in laboratorio, ma in futuro dovremo progettare degli impianti di grandi dimensioni».

La carne coltivata potrebbe rendere la filiera agroalimentare più sostenibile?

C.G.: «L’allevamento ha dei costi energetici e idrici enormi. Inoltre, depaupera i suoli, emette gas serra e crea un sistema inquinante che va ben oltre le stalle; tanti terreni sono poi dedicati alla coltivazione dei cereali utilizzati nei mangimi per gli animali. Infine, ci sono i trasporti, la macellazione e la gestione dei rifiuti di origine animale, che a loro volta incidono sull’impronta ecologica della carne che consumiamo tutti i giorni. Parliamo, quindi, di un settore che inquina tanto e per il quale è difficile migliorare concretamente la situazione di impatto ambientale. I detrattori delle carni coltivate promuovono un’immagine bucolica della filiera agroalimentare. Le fattorie sostenibili, tuttavia, sono in realtà molto poche. Per la maggior parte, in Italia come all’estero, si opta per allevamenti semi-intensivi o intensivi. Un altro aspetto, poi, riguarda quanto la produzione nazionale copra il fabbisogno interno: ad oggi copre solo il 40%, mentre il resto arriva soprattutto dalla Francia, dalla Spagna e dalla Romania. Come fare fronte a ciò resta ancora un punto di domanda».

© RIPRODUZIONE RISERVATA