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Natura per tutti e ritrovare respiro

Elena Granata del Politecnico di Milano: serve il «terzo tempo» come nel gioco del rugby. Spazi per il relax e riscoprire la dimensione ludica della vita, mortificata dalla produttività

Quando pensiamo al «terzo tempo», il nesso con le città e il tema dell’abitare non è immediato. Bisogna, però, fare uno sforzo di lettura della metafora che, come ci spiega Elena Granata, docente di Urbanistica del Politecnico di Milano, racchiude l’idea di tempo ritrovato, di festa e di relax.

Per spiegare la metafora, fa riferimento al gioco del rugby, a quando l’arbitro fischia la fine della partita e vincitori e vinti si dimenticano improvvisamente del risultato e si siedono a tavola per mangiare e bere insieme. «È un momento della condivisione e dell’amicizia, che trascende le rivalità sportive per trasformarsi in dialogo – spiega Granata –. Abbiamo pochissima confidenza progettuale con il tema del relax: relaxare è parola latina che rinvia al “lasciare andare”, al poter “rallentare”. Non vuol dire non fare nulla, ma fare cose diverse da quelle consuete, che ci consentano di allentare la tensione e lo stress, di ritrovare una dimensione ludica e giocosa della vita, quella che ogni giorno mortifichiamo sull’altare della produttività».

La fuga dalla metropoli

Granata cita in questo senso il «processo di mercificazione», che rischia di avere impatti sul diritto alla casa e fa fuggire dalle città, dove si riscontra una «iper-produzione» edilizia. Succede in modo particolare a Milano, coinvolgendo non solo i giovani e le famiglie in cerca di alloggio, ma anche il ceto medio che ne ha permesso la crescita e l’innovazione. «Che cosa succede alla città quando si sacrificano i luoghi della vita quotidiana? – si domanda Granata –. Pensiamo al turismo: una volta rappresentava una risorsa economica distribuita tra molteplici settori, oggi si è trasformato in un’economia estrattiva che sfrutta e depreda le risorse locali, impoverendo le città e spingendo i ceti più fragili fuori dai centri urbani». Il dito viene puntato contro le piattaforme che «favoriscono il turismo di passaggio a discapito delle famiglie, dei lavoratori e degli studenti».

Bergamasca, alloggi vuoti

Nel dialogare con la docente del Politecnico abbiamo provato a commentare anche il dato della provincia di Bergamo, che riporta 173mila alloggi vuoti (Istat, 2021), uno su quattro, e una richiesta di abitazioni che non accenna a fermarsi. «Il patrimonio edilizio abbandonato o sfitto perché decadente è un fenomeno che possiamo riscontrare in ogni città – chiarisce Granata –. Il problema grosso delle città italiane non è costruire nuove case ma far tornare nel mercato dell’affitto quella quota di abitazioni che abbiamo ma su cui si deve compiere manutenzione straordinaria».

Decostruire e depavimentare, quindi, dovrebbero essere le parole chiave nel pensare alle città del futuro. È fondamentale «non svincolare l’edilizia dall’urbanistica – prosegue Granata –, perché senza una visione d’insieme rischiamo di procedere per interventi che peggiorano la situazione invece che migliorarla». Se le città novecentesche erano pensate soprattutto per essere funzionali e scollegate al resto, la visione odierna dovrebbe cedere il passo a favore di una «città ecosistemica». Un aspetto da cui non si può prescindere è la presenza del verde, la cui progettazione, però, deve avere un criterio e una logica ben precisi. «La lezione che dovremmo aver imparato è che la città, così come la natura, è un ecosistema che ha bisogno di equilibri e di una certa quantità di natura, che va potenziata», rimarca Granata.

La regola del «3-30-300»

Un esempio semplice ma efficace è la cosiddetta regola del «3-30-300». Che cosa significa? Ogni cittadino dovrebbe vedere da casa almeno tre alberi, avere il 30 per cento di copertura arborea nel proprio quartiere e disporre di un parco a 300 metri da casa. «Una regola semplice e intelligente, che suggerisce che la natura dovrebbe essere disseminata su tutto il suolo urbano – spiega Granata –. Non possiamo conteggiare gli spazi verdi totali, dato che ci sono zone molto esposte alla cementificazione e alle isole di calore, e altre, invece, che godono di più aree verdi. Questa asimmetria è quella che chiamiamo ingiustizia climatica: tutti i cittadini devono godere dello stesso accesso al verde. Non è solo una questione di diritti ma di sostenibilità e capacità di mitigare la crisi climatica: le aree verdi non possono essere solo i parchi urbani e i giardini delle città. Tutti gli esercizi di piantumazione, depavimentazione e aumento della copertura arborea, quindi, diventano indispensabili a tutto il sistema città per resistere a ondate di calore, alluvioni, siccità e malattie croniche».

A fianco dell’intervento pratico ritornano la dimensione olistica e l’esortazione a ripensare a che cosa sia la città: «Oggi la mancanza di una dimensione collettiva – conclude Granata – è un problema cruciale, perché le grandi sfide che ci aspettano richiedono proprio la capacità di convergere verso obiettivi comuni: dalla sfida energetica, la necessità di produrre e consumare energia in modo diverso, a quella climatica, la lotta per mitigare gli impatti del cambiamento climatico, passando per la crisi sanitaria, rendendo il diritto alla salute davvero universale».

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