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Come interpretare gli scenari politico-economici tra crisi climatica, dazi e guerre

Il politologo Vittorio Emanuele Parsi analizza la crisi dell’impegno globale per il clima: Il cambio di posizione di Stati Uniti e Cina chiede all’Europa di acquisire una nuova consapevolezza

Essere sostenibili, oggi, è diventato difficile. Soprattutto per le aziende, che devono misurarsi con uno scenario sempre più incerto, in cui persino il negazionismo climatico è tornato con prepotenza nel dibattito pubblico. Proprio delle sfide geopolitiche si è parlato lunedì 10 novembre, durante l’ultimo incontro del «Comitato» che promuove eco.bergamo. Ospite dell’evento Vittorio Emanuele Parsi, politologo e docente di relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano. «L’ambientalismo, l’ecologismo e l’attivismo sono radicati in una profonda fiducia nei confronti della scienza», esordisce Parsi, che però mette subito in guardia dagli sviluppi degli ultimi anni: «L’onda lunga di questa grande fiducia si è esaurita. Se ascoltiamo i lavori della Cop di Belém, possiamo sentire dei punti di vista quasi barbari. Ci sono delle posizioni scettiche anche negli Stati Uniti, ma non c’è da stupirsi. Con l’insediamento dell’amministrazione Trump, l’atteggiamento nei confronti della scienza è cambiato: la Casa Bianca ha praticamente smontato l’obbligo di vaccinarsi contro il morbillo, figuriamoci se non può fare lo stesso con le regole contro il cambiamento climatico». Venti del tutto simili soffiano anche in Europa. A inizio novembre, i Ministri dell’ambiente dei 27 Paesi membri dell’Ue hanno raggiunto un accordo per abbattere del 90% le emissioni entro il 2040, ma non sono riusciti a votare all’unanimità: Slovacchia, Ungheria e Polonia si sono dette contrarie, Belgio e Bulgaria si sono astenuti. «Il vento del sovranismo sta spostando la boa dei regolamenti sul clima - ammette l’esperto, rispondendo alle domande degli imprenditori presenti in sala - ma non credo che si tratti di un’inversione di rotta totale o permanente. Dubito che il mondo potrà disconoscere la lotta contro il cambiamento climatico, anche per una questione economica: inquinare meno non fa bene solo all’ambiente, ma significa anche ridurre gli sprechi, quindi essere più efficienti e risparmiare». Mentre gli Stati Uniti sprofondano nel negazionismo e l’Europa inizia a dibattere sulle sue norme ambientali, la Cina sembra essersi ravveduta: «La Cina moderna ha degli obiettivi climatici ambiziosi e produce pannelli solari, auto elettriche e batterie», spiega Parsi. Ma c’è da stare attenti a vedere Pechino come un “campione” della sostenibilità: dietro alle sue mosse c’è il desiderio di scavalcare gli Stati Uniti. Il professore di relazioni internazionali ha una visione disillusa della politica ambientale cinese: «La Cina ha fatto due cose: prima ha inquinato a più non posso per decenni - e nessuno ha osato protestare. Poi ha cambiato strategia e ha iniziato a tappezzare il territorio di pannelli solari e pale eoliche. Anche qui, nessuno ha mosso un dito. Quello che ci dice la parabola cinese è che il capo ha sempre ragione, è lui che fa le regole: è lì che Pechino vuole arrivare». A complicare ulteriormente lo scenario ci pensano i dazi.

Dazi che, secondo il politologo, non hanno alcun senso dal punto di vista economico: «Gli economisti sostengono che l’economia europea e quella americana sono così interconnesse che ormai è impossibile scinderle l’una dall’altra. Ma allora perché Washington impone delle tariffe sulle nostre merci? Non certo per ragioni economiche. È una questione politica: è il culmine di una svolta conservatrice nata trent’anni fa, che ha polarizzato e radicalizzato il dibattito. Il risultato è sotto i nostri occhi: questo modo di agire identitario contamina anche l’economia, con dei risultati imprevedibili». I dazi americani sarebbero dunque il sintomo di un problema più grande, politico prima che economico e ambientale. Parsi la chiama “l’era della divergenza”: «Per decenni abbiamo pensato al mondo post-1945 come a quello della “convergenza”, in cui tutti andavano verso un obiettivo comune. Ora quella convergenza ha lasciato spazio alla tendenza opposta. I dazi lo certificano: questa è la più grande sfida del presente per le aziende. Le interdipendenze economiche non si ridurranno, perché non si possono disinventare come per magia. Ma aumenteranno le divergenze politiche, e con esse l’autoritarismo e le ingerenze della politica nell’economia. In Cina lo vediamo già: è Pechino a pianificare l’economia. Ma segnali preoccupanti arrivano anche dall’America: anche lì il Presidente usa la politica economica - e talvolta persino le relazioni internazionali - per arricchire sé stesso e la sua famiglia».

Geopolitica del clima: il sorpasso della Cina e la crisi della leadership occidentale

Per anni, quando abbiamo parlato del cambiamento climatico e delle regole per contrastarlo, abbiamo diviso il mondo in due. I “buoni” - gli europei, spesso anche gli americani, il mondo occidentale tutto - e i “cattivi”, che abbiamo sempre identificato in quelle potenze emergenti, in forte crescita, che basavano la loro parabola ascendente sull’energia proveniente dalle fonti fossili, sulla manodopera a basso prezzo e su produzioni che, pur di tener bassi i prezzi, si facevano beffe di qualsiasi regolamento ambientale internazionale. L’emblema di questa seconda metà del mondo erano la Cina e l’India.

Oggi le cose sono profondamente cambiate, e noi non ce ne siamo neanche accorti. A settembre, il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che la Cina taglierà le emissioni di una percentuale compresa tra il 7 e il 10% entro il 2035. L’obiettivo è stato messo nero su bianco nel National Determined Contribution Plan, l’ultimo piano di sviluppo di Pechino. Se la storia ci insegna qualcosa, è che probabilmente quell’obiettivo verrà raggiunto. Non solo: la Cina è la prima manifattura mondiale nel settore delle tecnologie abilitanti della transizione verde. Suoi sono i pannelli solari che installiamo sui nostri tetti, gli accumulatori che abbiamo nelle nostre case, le nostre auto elettriche e le loro batterie. La potenza installata combinata tra solare ed eolico cinese supera di interi ordini di grandezza quella di qualsiasi Paese europeo ed è quasi il quadruplo del suo diretto concorrente - gli Stati Uniti. È un risultato impressionante, per il “cattivo” del cambiamento climatico. Quello cinese non è un ravvedimento improvviso, ma risponde a un preciso problema di politica interna: la modernizzazione sfrenata, senza vincoli e senza attenzione alla sostenibilità ha creato un disastro ecologico. Il 60% delle falde acquifere cinesi è contaminato, mentre le riserve idriche del nord del Paese sono state prosciugate dalle centrali a carbone. Il rapporto della Cina con i boschi è controverso: ettari di foreste sono stati tagliati per la produzione di legname e combustibile, finché, negli anni Novanta, sono iniziati gli sforzi per la riforestazione. Sforzi riluttanti, mai veramente seguiti con convinzione: nel 2023, Pechino sosteneva ancora l’importanza di deforestare per lasciare spazio ai pascoli, fondamentali per ridurre le importazioni di carne dall’estero. L’area occidentale del Paese viene colpita duramente dalla desertificazione: il deserto, lì, avanza di circa settanta chilometri quadrati ogni anno. In Tibet, dove si trovano i ghiacciai che forniscono acqua potabile a due miliardi di persone in tutta l’Asia, le temperature crescono quattro volte più rapidamente del resto del mondo. Lo scioglimento dei ghiacciai ha già portato alla perdita di circa 28mila corsi d’acqua in tutta la Cina e del 20% del permafrost tibetano. La percentuale potrebbe salire all’80% entro il 2100.

La Cina, insomma, decarbonizza e combatte il cambiamento climatico non tanto per un improvviso afflato ambientalista, ma perché le conviene. Di recente, Pechino si è resa conto che questo voltafaccia “verde” può essere ben speso nelle organizzazioni internazionali, partecipando agli accordi multilaterali sul clima e mostrandosi come una potenza attenta e responsabile, lungimirante e cooperativa con il resto del mondo. Non c’è tempo per spiegare perché la Cina voglia scardinare - o quantomeno modificare - il sistema politico globale, ma ciò che è certo è che la geopolitica del clima è una potente leva per accrescere il proprio prestigio internazionale, e la Cina la sta sfruttando fino in fondo. La sta usando soprattutto perché la potenza che tradizionalmente ha guidato l’ordine mondiale, gli Stati Uniti, ha perso autorevolezza agli occhi del resto del mondo. Quello americano è un declino che ha tanti volti, a partire da quello politico, ma che si fa tanto più evidente se guardiamo alle azioni della Casa Bianca per la lotta al cambiamento climatico. Già parlare di “azioni” sarebbe lusinghiero: dal termine dell’amministrazione Obama in poi, la politica americana ha fatto pochissimo per il clima. Il primo mandato presidenziale di Donald Trump è stato certamente più cauto del secondo, ma ha visto gli USA ritirarsi dagli Accordi di Parigi - quegli accordi che essi stessi, insieme all’Europa, avevano reso possibili e che avevano convinto tutto il mondo a sottoscrivere. La seconda amministrazione Trump, ben più radicale della precedente, ha spalancato le porte per l’ingresso dello scetticismo e del negazionismo del cambiamento climatico nelle stanze del potere - americane e internazionali - e nel chiacchiericcio dell’opinione pubblica. Alcuni osservatori, addirittura, vedono i dazi - prima paventati, poi imposti, successivamente rivisti e talvolta persino abrogati - come uno strumento di politica climatica, una scure pronta ad abbattersi sui Paesi che (tra le altre cose) non mettono da parte i loro obiettivi di decarbonizzazione.

Quelli che un tempo erano i “cattivi” ora diventano i buoni, e quelli che prima consideravamo “buoni” si sono rivelati cattivi. Gli unici a non cambiare sponda siamo noi, gli europei, che restiamo i campioni della decarbonizzazione. Ma sempre più faticosamente: l’ultimo accordo tra Ministri dell’ambiente, che sancisce il taglio delle emissioni del 90% entro il 2040, non è stato votato all’unanimità. Belgio e Bulgaria si sono astenuti; Slovacchia, Ungheria e Polonia hanno votato contro. L’Italia e la Francia a favore, così come - seppur con qualche reticenza in più - la Germania. Il nostro Ministro dell’ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha definito l’accordo «un buon compromesso». Dal punto di vista sostanziale ha ragione: una quadra è stata raggiunta, un impegno è stato preso, c’è un passo avanti. Dal punto di vista politico, però, si sbaglia di grosso: il voto rivela delle profonde fratture anche nel blocco che storicamente è stato il più entusiasta nei confronti della lotta al cambiamento climatico. Sono fratture tra est e ovest - basta leggere i nomi dei contrari per accorgersene - ma non solo: l’astensione del Belgio, per esempio, è eloquente. In questo scenario così mutevole si muovono - si devono muovere - le aziende, a partire da quelle bergamasche, da quelle del nostro Comitato. Sappiamo che l’incertezza sulle normative ambientali è qualcosa con cui devono confrontarvi sempre più spesso. C’è chi si chiede quale sarà l’impatto dei dazi americani sui commerci internazionali e sul proprio business. C’è chi teme la concorrenza cinese nei segmenti “verdi” del mercato, e c’è anche chi teme di doversi legare troppo a Pechino per la transizione della propria azienda. C’è chi ha paura che i processi di adeguamento alle regole del pacchetto «Fit For 55», agli accordi internazionali sulla decarbonizzazione e ai regolamenti europei sulla sostenibilità dei prodotti si rivelino vani, in caso di “giravolta” scettica anche a Bruxelles, dopo Washington.

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