Un concetto che ricordo da uno dei miei pochi esami di marketing (dato vent’anni fa, mi scuserete se dico castronerie) è che la pubblicità dovrebbe evocare sensazioni positive, e non fare leva sulla paura. Io stessa preferisco evitare di acquistare servizi o prodotti che mi minacciano di diventare brutta, sola, grassa, povera o triste se dovessi farne a meno. Se compro una crema viso, tu che me la vendi devi dirmi che renderà la mia pelle luminosa e compatta, non che ho la faccia sciupata e devo limitare i danni.
Ci penso ogni volta che si parla di mettere al mondo un bambino, e il sentimento generale è la paura. Più che la paura: il catastrofismo apocalittico. Dichiarano la loro paura coloro che di bambini non ne vogliono: gli stipendi che non permettono di arrivare a fine mese neanche da soli, il rischio di perdere il lavoro, la situazione geopolitica, i femminicidi, la crisi climatica. Lo fanno quelli che i figli li hanno avuti, descrivendo la fatica, la solitudine, lo stress, il decadimento fisico, il rischio di povertà ed emarginazione sociale. Ma trasuda paura anche chi, in teoria, vorrebbe spronarci a farne. E con quali motivazioni? Evitare il tracollo sociale, battere l’infertilità prima che sia troppo tardi, dare un senso alle nostre insulse esistenze, non morire in solitudine. Capite bene che – se “fare figli” fosse un brand - avremmo già licenziato il direttore creativo.
«Sono molto preoccupata per la situazione delle pensioni e della previdenza sociale in Italia, farò qualche figlio per dare nuovi contribuenti al Paese», disse nessuna, mai, commentando gli ultimi desolanti dati Istat. Non è con la paura che si fanno i figli. Serve ottimismo, fiducia nel futuro, e anche con un po’ di incoscienza: «Se ci pensi troppo, non li farai mai», è uno dei luoghi comuni più veri quando si parla di diventare genitori. Credo sia anche la ragione per cui molte persone intelligenti che conosco di figli non ne hanno fatti, contrariamente a me.
Ho figli e sono felice
Ormai c’è quasi timore nel dire: « Ho figli, sono felice ». È una frase che si presta a mille critiche: «Stai forse dicendo che chi non ha figli non può essere felice?» («No»). «Stai criticando le madri che hanno la depressione post-partum?» («No»). «Stai dicendo che una donna si realizza solo tramite la maternità?» («No»). «Stai velatamente suggerendo che dovrei fare un figlio o mi stai malgiudicando perché non ce l’ho?» («No»). «Stai negando tutte le fatiche della genitorialità?» («No»). «Fai finta?» («No»). «Sei scema?» («Forse sì, fate voi»).
La felicità di avere dei figli e goderseli è un’esperienza comune a molti, ma purtroppo la maternità ha cattivi romanzieri: vette di amore purissimo intervallate da una sequela di infinite rotture di scatole. E chi ci ascolta tende a focalizzarsi più sulle ultime, dato che le prime sembrano una rivelazione mistica preclusa ai non iniziati. In realtà, la felicità di avere figli è molto concreta e illumina la quotidianità: è tua figlia che ti chiede di andare a scuola usando la “pista biciclabile”, tuo figlio che impara a fare qualcosa che prima non gli riusciva, i bambini che ti aspettano al ritorno dal lavoro come una rockstar a fine concerto, leggere insieme i libricini della buona notte. È un motore alle giornate più buie, perché – qualunque cosa succeda – per un figlio ci dovrai essere; un incentivo costante al miglioramento di sé (non dire parolacce, mangia sano, non parlare male di nessuno, pratica la gentilezza, sii paziente, abbi fiducia, mantieni le promesse); un impegno realmente gratificante e utile; una spinta verso il futuro, anche per chi è più portato alla tristezza e alla nostalgia.
È una felicità che dovrebbe poter fare normalmente parte del cammino di vita di ognuno, non scontata (non dimentichiamo chi vorrebbe, ma non può) e non obbligata, ma neanche una vocazione specialissima riservata a pochi eletti che «possono permettersi» di procreare. Un figlio non è una Ferrari o un attico in centro, non è uno “sfizio” per pochi. Qualsiasi persona in età riproduttiva, specialmente se è in coppia e ha un lavoro, dovrebbe poter responsabilmente avere i figli che desidera. Purtroppo non è (più) così.
Storia di mio nonno
Mio nonno faceva il maestro elementare, mia nonna era casalinga, e hanno mandato quattro figli all’università. Avevano auto, casa di proprietà e anche casa di villeggiatura in campagna (un rudere che sistemò mio nonno nel tempo libero). Credo che oggi in Italia non esista un solo maestro o maestra elementare che possa permettersi di mantenere sei persone col suo proprio stipendio, per quanto sobriamente possano vivere.
Qualche “boomer” dirà che ai loro tempi erano «meno viziati». Oggi le esigenze sono di più, ma credo sia più rilevante ricordare che i prezzi delle case sono raddoppiati e il potere di acquisto degli stipendi si è abbassato. Biasimare chi preferisce non rinunciare a “viaggi e aperitivi” per diventare genitore è come criticare chi preferisce comprare l’ultimo modello di iPhone piuttosto che risparmiare per comprarsi casa: con i soldi di un bel telefono non paghi l’anticipo del mutuo; con i soldi di un volo Ryanair non paghi neanche un terzo della retta del nido. Perché giudicare chi, con poche speranze nel futuro, vuole almeno togliersi qualche gratificazione immediata?
Non è solo una questione di soldi, ma di prospettive. Mio nonno contava le lire, ma sapeva anche che, facendoli studiare (scuola pubblica e gratuita), i suoi figli avrebbero potuto trovare un buon lavoro e sarebbero stati liberi e indipendenti. Non è più così da tempo, i patti sono saltati. Un figlio è un “debito” a vita, un “investimento” sempre più costoso. Ma siamo sicuri che debba essere così?
«Si sa che i figli costano»
Sempre dal mio esame di marketing, ricordo che siamo più propensi a spendere quando si tratta di farlo per un bambino. Chi deve vendere lo sa, e mette in commercio passeggini che costano quanto la mia prima auto usata, come se fosse normale. Vedo i prezzi e vorrei urlare: no, guardate, non servono tanti soldi per soddisfare le esigenze del bambino. Sta bene uguale nel passeggino smesso regalato dal cugino maggiore, con i vestiti del mercato e senza mangiare omogeneizzato bio da 5 euro al vasetto. Quello sterilizzatore lo userai due volte e te ne dimenticherai, quel fasciatoio da 700 euro è un inutile ingombro nella tua casa di 50 metri quadri, non ti serve la cameretta coordinata nei toni pastello. Cioè, se ti fa piacere falla, ma non stai facendo un torto a tuo figlio se lo fai dormire nel lettino primo prezzo dell’Ikea.
Mio padre e i suoi fratelli dormivano in quattro nella stessa stanza; io ho litigato con persone che sostengono sia ingiusto fare più di un figlio se non si può garantire una camera singola a ciascuno (certo, se l’ipotesi è che i figli rimangano nella loro cameretta fino ai 30 anni capisco il punto. Ancora una volta: questione di prospettive). La risposta più diffusa alla domanda: «Perché non si fanno figli?» è che non è giusto metterli al mondo e poi farli vivere in ristrettezze. E quali sono queste ristrettezze? Non avere di che comprare matite e quaderni per la scuola? Mangiare pane e cipolla? No: non potersi permettere di pagare milleduecento euro per la gita scolastica di quinta superiore. È un esempio reale, e mentre me lo raccontavano pensavo solo che vorrei vietare per decreto in tutte le scuole della Repubblica la possibilità stessa di proporre agli studenti viaggi d’istruzione che costano quanto lo stipendio mensile di un educatore sociosanitario.
«Il pediatra pubblico non risponde? Pagane uno privato, si sa che i figli costano», «In prima elementare si fa solo un’ora di inglese e la maestra non conosce nemmeno la lingua? Paga una scuola di inglese, si sa che i figli costano», «Tuo figlio è autistico ma la neuropsichiatria infantile ha posto solo fra un anno? Paga privatamente la terapia, si sa che i figli costano», «I tuoi figli sono a casa da scuola tre mesi e tu lavori? Licenziati oppure devolvi il tuo intero stipendio di luglio ai centri ricreativi estivi, si sa che i figli costano». Alcuni lo chiameranno “realismo”, a me pare ingiustizia, sopruso, pessima politica, se non pura e semplice cattiveria, e mi viene da battere i piedi a terra come fa mia figlia di 4 anni quando è davvero molto arrabbiata (figlia che ho fatto pur sapendo che non potrò pagarle l’università privata o la settimana bianca, my bad).
Un nuovo patto sociale
Davanti a questo scenario, l’unica possibile soluzione a me sembra un nuovo patto sociale: io faccio i figli, ma non devo rinunciare a oltre metà del mio stipendio per poter continuare a lavorare. Faccio i figli, ma la sanità e l’istruzione restano gratuite e accessibili a tutti. Faccio figli, ma non vengo discriminata sul lavoro per averne fatti.
Purtroppo, invece di condividere quelle che a me sembrano semplici banalità, diversi propugnatori della fertilità sono animati da spirito reazionario. Ci dicono che le donne non fanno più figli per colpa del femminismo, che preferiscono la carriera alle gioie della maternità. (Anche se fosse, qual è la soluzione? Gravidanze forzate come nella Repubblica di Gilead? Una qualche distopica dittatura patriarcale? Impediamo alle donne di leggere, istruirsi, partecipare al mercato del lavoro? - alcune di queste proposte le ho lette seriamente, andate voi a scoprire quali).
Ci dicono che la loro bisnonna di figli ne ha fatti 12 (sopravvissuti: la metà) e lavorava nei campi, cattive noi che non ci sta più bene. Più che cattive: contronatura, destinate a morire grasse e sole e a venire ritrovate tre settimane dopo mezze divorate dagli alsaziani (cit. «Bridget Jones»). Oppure ci dicono di fare figli per impedire la «sostituzione etnica». Al che vorrei quasi aver chiamato i miei italianissimi figli Mohammed e Aisha, solo per confondere i beceri razzisti. Purtroppo, invece di fare buona pubblicità alla causa, spargono odio e rafforzano uno degli stereotipi più tristi e dannosi sulla maternità: che fare figli sia roba per gente dalla mentalità ristretta, e che una donna emancipata faccia bene a non farne, se non vuole essere ricondotta al tradizionale ruolo dell’ancella.
Il punto non è obbligare chi non vuole a fare figli, ma mettere in condizione chi vuole di farli. E c’è tanta gente “normale” – uomini e donne - che vorrebbero farli, ma hanno dannatamente paura. Non servono le minacce per mettere al mondo bambini, ma un po’ di concreto ottimismo. La fiducia che saranno rispettati i principi costituzionali secondo cui la Repubblica (fondata sul lavoro, non sulla rendita) ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, e agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (articoli 3 e 31, così a memoria, il diritto mi piaceva più del marketing).