Uccise badante di Brignano
Condannato a trent'anni

Partì in auto da Vigevano con un coltello e, dopo averla investita con la macchina, finì con trenta fendenti la donna che aveva amato, e che l’aveva lasciato. Accadde all’alba del 21 giugno 2008 a Crema. Mercoledì la Corte d’Assise di Cremona ha condannato Vito D’Onghia, 55 anni, pugliese d’origine e tassista abusivo, a 30 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione di Antonia Sangiovanni, di 53 anni. Tutti la chiamavano «Mariuccia», era vedova con tre figli, aveva fatto la bidella a Treviglio e lavorava come badante nella Bergamasca, a Brignano Gera d’Adda, dove accudiva un’anziana ottantenne residente in via Colleoni.

Una perizia psichiatrica ha ritenuto l’uomo capace di intendere e di volere al momento del fatto. La sentenza è arrivata dopo cinque ore di camera di consiglio. I giudici hanno accolto la richiesta di condanna avanzata dal pubblico ministero Raffaele Pesiri. D’Onghia è stato processato con il rito abbreviato e ha potuto beneficiare dello sconto della pena, dall’ergastolo a 30 anni. Mariuccia e Vito si erano conosciuti nel 2004. L’uomo aveva come casa una roulotte in un campo alle porte di Vigevano (Pavia). Li univa la passione per il gioco d’azzardo e i casinò. Si erano conosciuti davanti a un tavolo verde e l’uomo vedeva in lei la sua ancora di salvezza.

Quando lei troncò il rapporto, all’inizio del 2008, lui non si rassegnò e iniziò a tormentarla fino al tragico epilogo. Il delitto si consumò a Crema, in via Martini, alle cinque e quaranta del mattino del 21 giugno 2008. Come ogni mattina, Mariuccia uscì di casa, inforcò la bicicletta e si diresse alla stazione ferroviaria di Crema, dove avrebbe dovuto prendere il treno per andare a Treviglio. Da lì, avrebbe poi raggiunto l’abitazione dell’ottantenne di Brignano, dove lavorava come badante da circa tre anni. Ad aspettarla fuori casa, però, c’era Vito D’Onghia, al volante della sua vecchia Saab.

Appena la vide, l’uomo ingranò la marcia e la raggiunse, cercando di iniziare una discussione. La donna però continuò a pedalare e così lui, al culmine della rabbia, la investì e la scaraventò a terra. Lei si rialzò e si mise a correre verso il cortile di casa, lui la inseguì, impugnando un lungo coltello. Sotto casa la raggiunse e la colpì con trenta fendenti. La donna morì in un lago di sangue, mentre D’Onghia scappò e fece perdere momentaneamente le tracce. Il presunto aggressore fu rintracciato dodici ore dopo in un casolare in località Montorfano, a Rovato (Brescia) e fu sottoposto a fermo per omicidio.

A spingerlo a uccidere sarebbe stato il sentirsi rifiutato da quella donna «che lui vedeva come la sua ancora di salvezza», spiega l’avvocato difensore, Giuseppe Giardina, del Foro di Lodi. Fra le ipotesi di movente era emerso anche un presunto debito di 700 euro che la donna avrebbe avuto con D’Onghia. «Il mio assistito – aggiunge il legale – è pentito per quello che ha fatto. Ad ogni modo, secondo noi non fu un delitto premeditato, ma un omicidio d’impeto: al momento del fatto – è la tesi difensiva, respinta dalla Corte d’Assise – il mio assistito non era capace di intendere e di volere. Perciò faremo ricorso in Appello».

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