«Io, a Teheran
fra gli scontri»

TEHERAN (IRAN) - Migliaia di automobilisti, giovani, donne in chador e vecchietti, che suonano il clacson e mostrano la «V», il segno della vittoria, con le due dita. Sono sostenitori di Mousavi e non si rassegnano alle elezioni burla dello scorso 12 giugno. La situazione in Iran è di nuovo incandescente.

di Marco Sanfilippo

TEHERAN (IRAN) - Migliaia di automobilisti, giovani, donne in chador e vecchietti, che suonano il clacson e mostrano la «V», il segno della vittoria, con le due dita. Sono sostenitori di Mousavi e non si rassegnano alle elezioni burla dello scorso 12 giugno. La situazione in Iran è di nuovo incandescente.

La commemorazione in ricordo delle vittime della repressione ieri si è trasformata nell'ennesima ondata di violenza della polizia che ha caricato, malmenato e arrestato numerosi manifestanti e costretto Hosseini Mousavi, il candidato sconfitto da un'enorme farsa nella corsa presidenziale, ad abbandonare subito il cimitero di Behesht-e Zahra, nel sobborgo meridionale di Teheran, dove - nonostante lo sbarramento delle strade - si erano dati appuntamento circa trecento attivisti del leader riformista.

Tra le persone arrestate anche il regista Jafar Panahi, Leone d'oro a Venezia nel 2000 con il film «Il Cerchio». Scontri e incidenti sono continuati in città dove circa tremila sostenitori hanno tentato di radunarsi davanti alla Grand Mosala, famoso luogo di culto: la polizia è intervenuta per fermarli, i dimostranti hanno bruciato cassonetti di immondizia e la replica è stata pesante con lacrimogeni, pestaggi e nuovi arresti. Guerriglia urbana anche alla sera e per fortuna non sembra esserci scappato il morto.

Con Mohammed, tassista spericolato, ci siamo tuffati nel traffico allucinante e nel caos totale della metropoli. Disordini in vari punti della città, fuoco e fiamme, cassonetti ribaltati, polizia in assetto anti-sommossa che caricava a bordo di moto enduro e dimostranti che lanciavano pietre per difendersi. Si sono sentiti anche spari. La popolazione si è riversata in strada con l'auto per manifestare suonando il clacson, peraltro zittito quando sono intervenuti i famigerati guardiani della rivoluzione armati di manganelli. Sono entrato martedì 28 luglio in Iran via terra dalla Turchia con la mia ormai amata Panda «senzafreni» e dal 29 sono a Teheran.

Non ho avuto nessun problema al confine di Bazargan: visto e carnet de passage (il documento per l'importazione temporanea di un veicolo) in regola, nessun controllo personale e all'utilitaria, nessun interrogatorio, non ho dovuto nemmeno mentire dicendo che non sono un giornalista. Ho dovuto soltanto pagare una mazzetta di 20 dollari a uno pseudo-funzionario. Inevitabilmente ho un quadro molto parziale della realtà iraniana considerato che l'Iran, purtroppo, rappresenta soltanto una tappa fugace in un'avventura complessa come il Mongol Rally.

Tra un paio di giorni sarò già in Turkmenistan. I miei sono soltanto appunti e impressioni di viaggio, non pretendo di scrivere un reportage illuminante. Premessa doverosa. Quello che sapevo sulla situazione iraniana lo avevo letto sui giornali in Italia. Le elezioni che hanno designato Mahmoud Ahmadinejad presidente, la protesta di Mousavi, il principale rivale, che ha lanciato la fondatissima accusa di votazioni truccate, le manifestazioni in piazza dell'opposizione e la dura repressione del governo con morti (una trentina secondo le autorità, almeno duecento per i dimostranti) e migliaia di persone incarcerate.

Prima di giovedì 30 luglio dietro le sbarre ne restavano ancora circa 200 e molti di loro hanno subìto torture, tanto che persino l'ayatollah Ali Khamenei, la Guida Suprema della rivoluzione islamica, ha ammesso un paio di giorni fa gli abusi sui manifestanti. Mousavi aveva garantito che nella commemorazione alla Grand Mosada si sarebbero ascoltati soltanto versetti del Corano in silenzio, nessuna nuova protesta. Il governo aveva negato l'autorizzazione e così le preghiere erano state spostate al cimitero di Behesht-e Zahra, dove sono stati sepolti diversi dimostranti uccisi, tra cui Neda Agha-Soltan, la ventiseienne che studiava musica, diventata una martire. Ma la tensione è riesplosa.

Prima di giovedì l'unica testimonianza diretta della crisi era che non potevo inviare o ricevere sms da quando ero entrato in territorio iraniano. Una forma di censura e di divieto della comunicazione decisa prima delle elezioni, per evitare assembramenti rapidi, e che è ripristinata nelle situazioni critiche. Posso invece telefonare e ricevere telefonate, così come navigare su internet, perlomeno sui siti italiani. Per gli iraniani è diverso: se il regime lo decide, addio sms, telefonare diventa complicato, internet va al rallentatore e scompaiono i siti con riferimenti all'Iran. Ho parlato con diverse persone, di varia condizione economica ed estrazione sociale, e i commenti sul momento attraversato dall'Iran sono univoci, negativi e addirittura perentori: per loro non esiste il minimo dubbio, le elezioni sono state fasulle, Ahmadinejad non è stato eletto dal popolo, bensì da Khamenei, e Mousavi è considerato il legittimo presidente.

Un iraniano, che ha lavorato a Roma per sette anni e parla italiano, è stato lapidario: «In Iran solo il 10% della popolazione professa l'islamismo, non siamo assolutamente integralisti, com'è possibile che abbiano vinto i conservatori? La realtà è che tutti sanno che le elezioni sono state una vera porcheria, erano gestite dai guardiani della rivoluzione che non sono nemmeno iraniani. Quando il potere religioso e il potere politico coincidono è la fine. Ma stavolta non molleremo, non ci scorderemo dei morti. Pensate che per riavere un cadavere si devono pagare tre mila euro. Continueremo nella nostra lotta pacifica, come usare il ferro da stiro tutti insieme in modo da causare un blackout nei televisori quando parla Ahmadinejad». Uno studente universitario ci ha confidato: «Per me non c'è differenza tra musulmani o cristiani, tra iraniani, israeliani o italiani. Siamo tutti esseri umani. L'unica grande differenza, in tutto il mondo, è tra uomini buoni e uomini non buoni e Ahmadinejad e chi lo sostiene non sono uomini buoni».

Il regime, nonostante le dimostrazioni di forza, traballa anche perché sembra minato nelle sua fondamenta. Sono nati forti contrasti anche tra Khamenei e la sua creatura Ahmadinejad e il potente ayatollah Hashemi Rafsanjani, che ha il potere di destituire la Guida Suprema Khamenei, sembra più vicino ai riformisti. Buona fortuna, Paese gentile che mi ha abbracciato con tanta simpatia.

Marco Sanfilippo

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