Le storie dimenticate / Valle Seriana
Domenica 11 Agosto 2013
Il castello scomparso di Albino
nella nebbia delle guerre medievali
Non è rimasta neanche una pietra del castello ghibellino dei Da Piano che nel Medioevo dominava Albino. Ma, curiosamente, ce n'è invece traccia nel toponimo. Avete anche voi storie del vostro paese o luoghi dimenticati da segnalarci? Potete scrivere all'indirizzo [email protected]
In questo caso, insomma, il nome ha resistito più delle fortificazioni, che pure, all'epoca, dovevano essere solide, abbastanza da resistere all'assedio di mille uomini.
«Belaguarda» è un nome «pesante», che già svela un po' del mistero di questo antico castello: arrampicato su una collina, era collocato in un punto panoramico (quindi strategico) sulla bassa valle. «In passato – racconta Giampiero Tiraboschi, storico locale, autore di numerosi articoli e saggi – c'era una mulattiera che dal ponte medievale portava alla chiesa di San Rocco, rifatta nei primi decenni del Cinquecento ampliando la cappella che già esisteva. Poi con la costruzione della cementeria Guffanti (e poi Italcementi) a fine Ottocento quella via di collegamento è sparita, insieme alle tracce della fortificazione, e ne è stata creata una a tornanti più in là». Adesso bisogna cercarla, questa piccola chiesa. Dopo il ponte si prende via delle Cave e si sale. Qualche tornante, e poco prima del grande negozio di scarpe, a destra, si imbocca una strada delimitata da una sbarra, e poco dopo finalmente un cartello in legno indica «San Rocco».
Un luogo immerso nel verde, nel silenzio, con i tavolini fuori. Così quieto adesso che nessuno se lo immagina più come teatro di episodi oscuri e tristi della storia albinese: le battaglie sanguinose tra guelfi e ghibellini, la quarantena degli appestati durante le epidemie (San Rocco nella tradizione popolare è considerato fra l'altro protettore dei malati di peste). Basta chiudere gli occhi, dimenticare le ciminiere del cementificio, ormai abbandonato, ed ecco, si può immaginare com'era questo luogo quando a frequentarlo erano nobili signori, dame e cavalieri.
La storia, a dire il vero, si adatta meglio a un'immagine drammatica che romantica: «A metà Trecento – spiega Tiraboschi – Filipino da Piano, personaggio albinese di spicco, assicurava all'intera valle i rifornimenti di grano, che importava da Romano e dal milanese su licenza del Duca di Milano. Non stupisce quindi che fosse il capofila della fazione ghibellina che parteggiava per il Duca. Gli si opponeva la fazione guelfa, che puntava a ottenere l'autonomia per sfuggire alla pesante pressione fiscale del signore di Milano, impegnato in costose guerre di espansione territoriale». C'erano gruppi di guelfi e ghibellini in tutta la nostra provincia, e verso la fine del secolo arrivarono a scontrarsi dando vita alle «guerre bergamasche», che per decenni portarono ovunque distruzione e morte.
«Il castello dei Da Piano – continua Tiraboschi – era una struttura strategica di controllo della bassa valle, a supporto e a difesa della potente minoranza ghibellina». Lo danneggiò gravemente l'attacco di una banda di duemila guelfi nel 1398. Alla guida c'era Antonio detto Bugatto di Comenduno, condottiero spregiudicato, che pare avesse inventato per l'occasione terrificanti macchine belliche: macchine efficaci, che misero a ferro e fuoco le torri, le mura e le abitazioni che le circondavano». Come svelano «I registri litterarum (1363-1410), il carteggio dei signori di Bergamo» (a cura di Patrizia Mainoni e Arveno Sala, Edizioni Unicopli), la chiesetta sorgeva su un dosso più elevato del fortilizio, e Bugatto attaccò proprio da lì, sfruttando questa particolare caratteristica per sfondare le difese del castello.
L'anno dopo nella Bergamasca arrivò la peste e da Bergamo a Comenduno si snodò una lunga processione di penitenti in vesti bianche per chiedere una tregua: ma la vicinanza di tante persone favorì il contagio e le vittime furono oltre 20 mila. Il castello ghibellino però era importante per il Duca di Milano che, informato di quanto era accaduto, lo dispensò dal pagamento dei tributi per cinque anni e ordinò che fosse ricostruito per rendere «sicuro il passo di detta valle». Il costo dei lavori venne addebitato alla città e ai comuni del distretto bergamasco.
Fu allora che «I Rettori di Bergamo, consigliati da esperti, decisero di fortificare anche l'altura con la chiesetta, collegandola al castello mediante un muro difensivo con barbacani». Anche allora la gente aveva ragioni valide per lamentarsi della pressione fiscale: per raccogliere i 3.000 fiorini che servivano, infatti, furono aggiunti 10 soldi al prezzo di ogni peso di sale, che i comuni del Bergamasco, sebbene riluttanti, erano obbligati ad acquistare nella quantità stabilita dal Ducato. Perfino tra i debiti della lontana comunità di Brembilla comparivano 9 lire per la fortificazione del castello di Albino. Come testimoniano le lettere del signore di Milano furono necessarie un po' di decisione e parecchie insistenze per ottenere i soldi, ma il Duca aveva fretta e nel giro di pochi mesi i lavori furono infine conclusi, e anche il ponte sul fiume Serio fu riparato.
Era un lavoro fatto bene, tanto che pochi anni dopo, nel 1406, il castello riuscì a respingere l'assedio di mille guelfi con quaranta uomini a cavallo. La battaglia durò ben sei giorni e molti dei nemici furono feriti o uccisi. Cosa accadde dopo non si sa. Certo i ghibellini ebbero la peggio, e lasciarono il paese, mentre aumentava il potere dei figli del Bugatto, i signori di Comenduno «che svolsero un ruolo importante – conclude Tiraboschi – nella dedizione della valle a Venezia». Già nel 1428 il castello non compariva più nell'elenco dei fortilizi redatto per il Senato veneziano. È stato il simbolo di un periodo buio, oggi non è più nient'altro che un nome.
Sabrina Penteriani
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