Il vescovo: «La logica del dono
è capace di costruire la storia»

di Elena Catalfamo
«I missionari e laici in Bolivia hanno dimostrato in questi 50 anni che la logica del dono è capace di costruire la storia, il mondo o addirittura di costruire quei meccanismi che ci sembrano indisponibili al dono».

«I missionari e laici in Bolivia hanno dimostrato in questi 50 anni che la logica del dono è capace di costruire la storia, il mondo o addirittura di costruire quei meccanismi che ci sembrano indisponibili al dono come l'economia e il lavoro o persino la finanza». È questa la riflessione che lascia monsignor Francesco Beschi come bilancio del lungo viaggio in Bolivia.

In queste due settimane, da La Paz a Santa Cruz, ha incontrato molti missionari, laici e religiose: tante storie di vita al servizio della Bolivia. Vede nei loro percorsi un filo conduttore?
«Io penso che sia riconoscibile una passione capace di animare dal di dentro il servizio che queste persone stanno offrendo. Persone che sono venute qui con una ricchezza di motivazione ma che, per rimanere qui, hanno continuamente rinnovato la scelta iniziale. Si tratta dunque di una passione non estemporanea, ma di un sentimento e una convinzione profonda, esistenziale e cristiana. Le modalità di questa passione si manifestano poi in modi diversi, nell'impegno ecclesiale e sociale con una serie di sfaccettature: dall'educazione alla salute, dall'emarginazione all'impegno per la giustizia e a una democrazia più diffusa».

Tante storie di vita che sono riuscite a dare continuità a 50 anni di storia: cosa ci dice questa esperienza?
«Vuole dire qualcosa che non è estemporaneo, che assume il valore di una continuità e di una responsabilità costruttiva e non di un'esperienza fine a se stessa. È quindi un'esperienza inevitabilmente proiettata al futuro: 50 anni non si buttano via. Dice anche della capacità della nostra Chiesa di Bergamo, delle persone che sono venute qui e delle Chiese che ci hanno accolto, di dare continuità e di far passare questa passione di generazione in generazione, da chi è arrivato a chi ancora deve arrivare. È un elemento di grande valore a fronte di una tentazione oggi diffusa di fare solo una somma di esperienze limitate, estemporanee e superficiali».

Nella relazione al Gruppo Bergamo, Lei ha indicato tra le prospettive future del missionario quella di farsi testimone della logica del dono contro quella dell'interesse: cosa significa?
«La logica del dono appartiene all'esperienza cristiana e non solo. La novità sta in questo passaggio epocale indicato da Papa Benedetto XVI di renderla paradigma di interpretazione e trasformazione del mondo. Nella mentalità diffusa il dono appartiene alla sfera della relazioni personali. Qui invece si sta dimostrando che la logica del dono è capace di costruire la storia, il mondo o addirittura di costruire quei meccanismi che ci sembrano indisponibili al dono come l'economia e il lavoro o persino la finanza».

Parlando della logica del dono ha anche introdotto l'importanza del predisporsi a ricevere…
«All'interno della lettura della logica del dono in termini nuovi va sottolineato anche l'aspetto dell'imparare a ricevere. È una prospettiva biblica e cristiana che nasce dall'esperienza di un dono. La figura di Maria è grandissima a partire dal sì non passivo allo Spirito Santo. Non è solo una prospettiva spirituale o relazionale ma si tratta di entrare in qualcosa di molto nuovo in cui la necessità di imparare a ricevere s'impone. Noi non siamo abituati a questo: noi prendiamo, meritiamo, siamo disposti a donare ma per noi imparare a ricevere è più difficile».

La logica del dono può essere una via nuova nella crisi strutturale che ci coinvolge in Europa?
«Mi sembra che sia molto diffusa nella nostra terra la cultura del dono, che si esprime in termini di generosità gratuita, a volte veramente impressionante dal profilo quantitativo. Dobbiamo però imparare a metterci insieme nelle difficoltà e nella costruzione di prospettive nuove. La logica del dono è disinteressata e il ricevere è tanto importante quanto il dare. Tutto questo non lo vedo evidente nella società: è un cambiamento di stile e di approccio. Dire queste cose può suggestionare qualcuno e lasciare perplessi molti, tanto più diventa difficile tradurlo nella realtà. Non mi sembra però che le alternative siano più chiare di quello che sto dicendo. Anche ascoltando tante persone competenti nei loro campi vedo una grande incertezza e fatica. Si continua a percorrere la strada conosciuta sottovalutando le cause che hanno portato a questa situazione perché le prospettive sono oscure e incerte. La semplice spiegazione di un'onda che scende e sale nell'economia mi sembra molto semplicistica».

Diciannove giovani della nostra diocesi sono in Bolivia per un'esperienza missionaria: cosa li attrae?
«Non sono i soli a scegliere un'esperienza di questo tipo: credo che la novità sia proprio questa rispetto al passato. Partono in molti, motivati dal desiderio di un incontro e di comprendere lasciandosi coinvolgere e non osservando come semplici spettatori. In passato, invece, i giovani che partivano erano pochi, anche se pronti a giocarsi un tempo molto più significativo della loro vita in missione. Ora invece queste esperienze incidono di più in un cambio di mentalità in Europa che in uno spirito di servizio in Bolivia o in altri Paesi».

Perché, a proposito dei 50 anni di presenza in Bolivia, Lei parla di cooperazione?
«Oggi la necessità di camminare insieme è molto più forte rispetto al passato: avvertiamo la bellezza di una storia scritta nei decenni scorsi in cui la risposta ai bisogni fondamentali e l'aiuto alle chiese più povere si è manifestato in modo sorprendente e capace di suscitare meraviglia. Oggi mi sembra che, in un clima di rapporti consolidati, pur essendoci necessità ancora evidenti, lo scambio e la riflessione comune siano da non sottovalutare. Noi abbiamo una bellissima storia che sta continuando ma in Italia ci sono più preti provenienti da Paesi stranieri in servizio pastorale di quanti l'Italia non ne invii all'estero. La situazione è capovolta. Immaginiamo il missionario in un Paese lontano ma quale è in quest'ottica il Paese lontano? Nella nostra diocesi siamo in una posizione privilegiata ma dobbiamo utilizzare questo privilegio in termini di crescita. Avere anche noi dei sacerdoti stranieri, non per necessità, è un modo serio di raccogliere l'eredità di questa storia».

Quale è il futuro della missione bergamasca in Bolivia?
«Vorremmo metterci sempre più a disposizione di una soggettività locale: il vescovo, il clero locale e le autorità. Vogliamo essere al servizio. Vedo che la presenza dei bergamaschi, penso ai laici che hanno realizzato opere significative, è talmente apprezzata che tendenzialmente la richiesta è di mantenere ciò che abbiamo costruito in questi 50 anni con il timore che, con il calo di vocazioni e risorse, tutto questo non venga sostenuto. La seconda domanda, molto interessante, che ci viene fatta riguarda un bisogno di formazione permanente per il clero».

Elena Catalfamo

© RIPRODUZIONE RISERVATA