Regione autonoma
e percorsi ambigui

«Sarà un passaggio storico», questa l’enfatica scommessa di Roberto Maroni con riferimento al referendum consultivo regionale sull’autonomia della Regione. A voler tutto concedere, c’è, come minimo, molta esagerazione in questa dichiarazione, come attesta l’ampio disinteresse che circonda questa iniziativa regionale.

I cittadini lombardi saranno chiamati a rispondere a un quesito così formulato: «Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione?».

Tale quesito è il frutto di una serie di mediazioni e di ridimensionamenti rispetto al disegno originario della Lega. Nelle iniziali ipotesi, infatti, l’obiettivo del referendum doveva essere una spinta per l’ottenimento, per la Lombardia, dello status di Regione a Statuto speciale. In tal caso, tuttavia, l’iniziativa sarebbe stata senz’altro incostituzionale. La Corte costituzionale ha infatti da tempo chiarito che «non è […] consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali, giacché le regole procedimentali e organizzative della revisione, che sono legate al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che si pretendano manifestazione di autonomia» (sent. 496 del 2000).

L’acquisizione dello status di Regione speciale richiede la revisione costituzionale. La nuova proposta si iscrive invece nel quadro costituzionale, facendo esplicito riferimento all’art. 116, comma III, della Costituzione, che prevede un procedimento articolato perché le Regioni a Statuto ordinario possano negoziare con lo Stato forme e condizioni particolari di autonomia, differenziandosi così dalle altre Regioni ordinarie. Il procedimento previsto dal suddetto articolo costituzionale si riferisce però a specifiche materie (quelle «di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n e s») e non contempla il passaggio di un referendum consultivo (si fa riferimento a una «legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali»). Insomma, il passaggio referendario voluto dalla Regione Lombardia appare, in ragione dell’obiettivo, formalmente superfluo e, nel merito, fortemente ambiguo, per la mancata specificazione delle materie per le quali si richiede una maggiore autonomia e per il ruolo, almeno finora eluso, degli enti locali.

L’iniziativa è dunque propriamente politica e si avvale di uno strumento istituzionale (per il quale vi è un costo non indifferente) in vista di un esito che non è in alcun modo predefinito chiaramente. Non essendovi un quorum di validità per il referendum consultivo, vi sarà comunque un risultato che qualunque forza potrà usare e interpretare liberamente e intestarsi arbitrariamente. A norma dello Statuto della Lombardia (art. 52), il Consiglio Regionale può deliberare l’indizione di referendum consultivi a maggioranza dei 2/3, su questioni di interesse regionale. La proposta ha ottenuto, nel febbraio scorso, i necessari consensi, grazie alla convergenza dei voti del Movimento 5 Stelle e della maggioranza regionale. Il M5S ha accettato la proposta, contribuendo invero a riportarla nell’alveo costituzionale, in cambio dell’introduzione del voto elettronico (ottenuta con una modifica della l.r. 34/1983), che è uno strumento evidentemente strategico per il movimento stesso.

Si ha insomma la netta sensazione che questa iniziativa istituzionale sia viziata da una grave strumentalità, sia da parte della maggioranza in Regione, che ricerca un mandato ambiguo che la tolga dal cono d’ombra di sfiducia in cui i recenti scandali l’hanno infilata, sia da parte del M5S che usa l’occasione per introdurre uno strumento che potrà usare altrove. I cittadini lombardi si troverebbero così chiamati ad esprimersi su una procedura (che si realizza con l’attivazione di un confronto con il Governo), in assenza di un quesito chiaro e definito. Una specie di «carta bianca» su cui poi ognuno, secondo le sue convenienze partitiche, potrà leggere ciò che vuole. Forse, in questa situazione opaca, l’adesione di esponenti delle istituzioni degli enti locali ha il senso di non consentire che un referendum, tanto ambiguamente pensato, possa essere interpretato solo in un’ottica di rafforzamento del potere delle Regioni, anziché del sistema complessivo delle autonomie.

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