Burocrazia da snellire,
una sfida per l’Ue

Con un gesto simbolicamente significativo il saluto di Macron, dopo la vittoria elettorale di domenica, è stato preceduto dall’Inno alla gioia di Beethoven. A simboleggiare il fatto che la Francia vede il suo posto e il suo futuro nell’Unione europea. Naturalmente, il gesto del neo presidente francese dovrà essere sorretto da scelte politiche conseguenti. I problemi, le incertezze, le paure che hanno agitato la campagna elettorale non si sono dissolti con la vittoria di Macron e con la sconfitta dello spauracchio Le Pen.

Si può soltanto dire che il convinto europeismo del presidente francese – in ciò del tutto in linea con l’afflato che animava il socialista Mitterrand – potrà tenere aperto il varco verso un’azione politica dell’Unione europea orientata allo sviluppo e non soltanto al ragionieristico controllo dei conti.

Contro questo atteggiamento delle istituzioni comunitarie, da ogni parte (forse meno che dagli uffici pubblici di Bruxelles), si invoca meno burocrazia, auspicando che l’Unione si liberi degli «euroburocrati». Su questo punto, però, occorre andar oltre i luoghi comuni e i facili slogan. La richiesta – sia chiaro – non è affatto priva di fondamento, poiché allude alle maglie strettissime e sovente fin troppo intricate della normativa comunitaria, che si intreccia nei singoli Paesi con la legislazione nazionale e in alcuni casi (tra questi l’Italia) con la legislazione substatale. Groviglio che produce frequenti black-out sul piano giuridico, ma che soprattutto ha pesanti ripercussioni sui cittadini e sulle attività economiche, nonché – aspetto che sfugge alla pubblica opinione – sulla stessa operatività delle amministrazioni degli Stati nazionali. Si tratta di una stortura che il processo di costruzione europea si trascina dall’origine, dai Trattati di Roma del 1957. Oltre vent’anni fa il filosofo Nicola Matteucci scriveva che l’Unione europea era ancora «un’entità politica ibrida», nella quale coesistevano elementi che viaggiavano «a velocità diversa». Da una parte, «un’Europa lenta o lentissima nel processo di integrazione politica, perché gli Stati nazionali volevano continuare ad avere il potere. Dall’altra, un’Europa veloce e talvolta velocissima nella produzione normativa». Diagnosi impietosa, ma assolutamente precisa, che resta tuttora valida, pur nel decorso del tempo e delle mutate condizioni socio-politiche ed economiche.

Con un apparente paradosso si può dire che l’eccesso di burocrazia dell’Unione è il prodotto del deficit di politica della stessa. Il peso eccessivo delle norme – anche di dettaglio – che provengono da fonti comunitarie dipende dalla timidezza con la quale si è affrontato il tema della cessione di potere da parte degli Stati in settori chiave dell’azione politico/istituzionale dell’Unione. Valga soltanto l’esempio delle funzioni fiscali e del governo della moneta. La creazione dell’euro ha giustamente reso indispensabile il rafforzamento dell’autorità di settore, la Banca centrale europea, dando al governatore Draghi l’opportunità di svolgere un ruolo di sostegno delle economie nazionali. Viceversa, molto più indietro si è nella creazione di livelli omogenei di tassazione, con la conseguenza di ampliare i divari di allocazione delle attività produttive da parte delle grandi multinazionali che vanno ovviamente a investire laddove è per loro più conveniente. Tutto ciò accade anche per la testarda resistenza dei governi a cedere le necessarie frazioni di potere nazionale all’Unione nei settori nei quali i processi di globalizzazione lo rendano utile.

È chiaro che la superfetazione normativa dell’Unione è uno degli aspetti più complessi da decifrare e più ardui da risolvere. Ma sarebbe un fatale errore pensare che la soluzione risieda nel ritorno al passato, alla fase nella quale le normative nazionali erano «sovrane» in quasi tutti i settori della vita associata. Il «nazionalismo di ritorno» è storicamente impraticabile e sarebbe politicamente un suicidio per i Paesi che lo dovessero scegliere (su questo l’evoluzione della Brexit potrà fornire lumi interessanti). Occorre che l’Unione europea cambi indirizzi e si volga maggiormente a curare le esigenze dei 500 milioni di abitanti che la popolano. Guardando avanti, non dietro le spalle.

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