Disservizi scuola
La misura è colma

Stupisce lo stupore, verrebbe da dire, se non si trattasse di una realtà drammatica che mina direttamente e azzoppa il bene più grande di una famiglia e di un Paese: i propri figli, i propri giovani. Alzi la mano chi, pur non addetto ai lavori o non genitore, non ha mai sentito parlare di schizofreniche girandole di docenti, di incomprensibili supplenze delle supplenze, del fiume di docenti del Sud che chiedono di insegnare al Nord (si dà il caso, banalmente demografico, che al Nord ci sia più del 60% degli studenti della scuola italiana), ma contemporaneamente chiedono di tornare al Sud.

Certo, quando un fenomeno che ci affligge da quarant’anni supera ogni dimensione di sostenibilità, il disagio straborda e vien quasi il dubbio che non si tratti più soltanto della solita polemica giornalistica autunnale/invernale sui disservizi della scuola pubblica, ma che la misura sia colma, che non ci si può dimenticare di questa situazione con il passare dei mesi, con l’aggiustamento lento e pachidermico che ogni anno traghetta la scuola alla fine, all’estate, alle vacanze e… se ne parlerà l’anno prossimo!

Il trasferimento di 207.000 docenti di ruolo (il 30%) nella scuola statale è la mostruosità dell’anno scolastico in corso, a cui va aggiunta l’altra mostruosità cronica del precariato, vale a dire altri 50.000 docenti circa che, in quanto precari appunto, si spostano da una sede all’altra nella più totale incertezza su quanto vi potranno rimanere. Tradotto per gli studenti: circa due milioni e mezzo di essi (circa un terzo del totale) hanno cambiato docente, spesso non una sola volta, ma ripetutamente; ma c’è di peggio, se solo si pensa che questa girandola infernale si è abbattuta, innominabile, sugli allievi con disabilità che cambiano insegnante di sostegno non solo annualmente ma ripetutamente durante l’anno, in virtù del meccanismo perverso delle graduatorie di prima, seconda, terza fascia e non raramente incappano in docenti non specializzati giacché neanche un recentissimo concorso nazionale (ahimè!) è riuscito a risolvere questo principio di cristallina equità: dare ad ogni allievo con disabilità la certezza di ciò che la legge italiana dice di garantire da quarant’anni a questa parte.

Che cos’ha a che vedere questo disastro organizzativo con la «buona» scuola della L107/15? È desolante dire oggi che quel che vediamo ora era oggettivamente del tutto prevedibile nell’impianto generale di quella norma, nel suo esplicito riposizionarsi verso una gestione amministrativa centralistica della scuola che, per fare l’esempio più eclatante, anziché trovare alternative credibili a sempre più impossibili ed impercorribili concorsi nazionali, li moltiplica all’infinito e con essi i ricorsi e i contro-ricorsi, le sentenze dei Tar e la palude burocratica dilagante. Che cosa hanno prodotto mesi di discussioni ministeriali sulle deleghe della Legge 107/15, se la scelta è stata quella di approvare, da parte del Consiglio dei ministri nell’ultimo giorno utile, testi più o meno anodini su tutti quei temi a suo tempo sbandierati come strategici per la qualità della cosiddetta «buona» scuola? Testi che nei prossimi 60 giorni (un’accelerazione da vertigine spaziale!) dovrebbero trovare la quadra definitiva su questioni cruciali come (citiamo solo le più note) il rapporto tra la valutazione interna degli apprendimenti e la valutazione esterna del sistema, il nuovo reclutamento dei futuri docenti, la formazione e la gestione dei docenti di sostegno (appunto!), il rapporto tra nidi per l’infanzia e scuola dell’infanzia. Se, come ci segnalano le prime informazioni che ci vengono da questi testi, ancora una volta la preoccupazione maggiore non sarà trovare soluzioni congruenti allo scopo istituzionale del servizio educativo nazionale, ma conservare e garantire un apparato amministrativo, corporativo e autocentrato, che cosa ne sarà di questo servizio stesso?

Non troviamo alcuna ragionevole consolazione nel riandare nostalgicamente ai tempi in cui la politica ministeriale, forte di un potere indiscusso centralistico, appariva capace di decidere e controllare verticalmente la scuola italiana di quell’epoca; invocarne un’impossibile rivisitazione magari sotto il titolo di «buona» scuola, non sembra altro che una ironica e rovinosa iperbole programmatica.

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