I debiti con il fisco
Malattia senza cura

«La frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco». Lo scriveva Luigi Einaudi nel 1907, più di un secolo fa, e come si vede le cose non sono cambiate. Secondo Equitalia nel nostro Paese ci sono 21 milioni di contribuenti che hanno debiti fiscali «a vario titolo» con «gli oltre 8 mila enti creditori» per i quali esercita la riscossione la società pubblica avviata alla chiusura nel luglio di quest’anno (se abbiamo capito bene). Siamo un popolo di evasori e di frodatori? Per carità, come ha spiegato l’amministratore delegato Ernesto Maria Ruffini, il 53 per cento (circa undici milioni di italiani) accumulano pendenze sotto i mille euro.

Però dieci milioni di italiani che hanno debiti con lo Stato per oltre mille euro sono una cifra cospicua, circa un quarto della popolazione se consideriamo che venti milioni di minori non sono ancora diventati contribuenti.

Questa sorta di debito pubblico fiscale (tecnicamente si chiama «il magazzino dei debiti residui») comporta somme anche maturate 15 anni fa. Nel popolo dei «morosi fiscali» circa quattro milioni devono cifre tra i mille e 5 mila, meno di un milione e mezzo tra i 5 mila e i 10 mila, due milioni e mezzo tra i dieci mila e i 50 mila, 630 mila dai 50 mila fino a 100 mila e infine (udite udite) 840 mila contribuenti sono debitori verso l’Erario di oltre 100 mila euro. Ma rassegniamoci: quei soldi lo Stato non li vedrà (quasi) mai.

Pare che a fronte di un debito di 817 miliardi di euro i crediti non «incagliati» e recuperabili siano non più di 51,9 miliardi, tra deceduti, nullatenenti, falliti, provvedimenti giudiziari di autotutela e via dicendo. Il tutto si lega anche al ben noto fenomeno dell’evasione vera e propria, calcolata, dai cento ai duecento miliardi di euro. Ora è chiaro che siamo di fronte a un problema difficilmente risolvibile inviando plotoni della Guardia di Finanza in tutto il Paese, casa per casa. Anche perché lo Stato vessatorio non è un’invenzione letteraria buona per un elzeviro del 1907: secondo uno studio della Cgia di Mestre l’Italia è quinta nella classifica della pressione fiscale più alta in Europa (con il 42,9 per cento in rapporto al Pil) dopo Francia (48% del Pil), Belgio (46,8), Austria (44,3) e Svezia con il 44 per cento. La media dei 28 Paesi Ue (Regno Unito compreso) è del 39,9 per cento, 3,5 punti in meno rispetto all’Italia. Tanto per fare un esempio, i tedeschi pagano al fisco mediamente 973 euro all’anno in meno rispetto gli italiani. E se il nostro Paese avesse la pressione fiscale allineata con la media europea, ogni cittadino pagherebbe 946 euro in meno all’anno.

È dell’altro ieri la notizia, diffusa dalla Corte dei Conti, che l’Italia, tra imposte e contributi, impone alle aziende un carico fiscale che eccede di ben dieci punti rispetto alla media europea. Inoltre le tasse sono tante e tali che essere a posto con gli adempimenti costa agli imprenditori italiani «269 ore lavorative, il 55 per cento in più di quanto richiesto al suo competitore europeo».

Per capire perché ci ritroviamo questo insopportabile fardello dovremmo ripercorrere la storia del debito pubblico italiano, ingigantitosi grazie alla finanza allegra della Prima Repubblica (e in fondo anche parte della Seconda), che ha sempre spostato il cerino sulle nuove generazioni, fino a depositare, deficit dopo deficit, uno stock di oltre mille miliardi di euro con le conseguenze che sappiamo in termini di interessi da pagare ogni anno. Nella sostanza il peso del fisco ha continuato a impoverirci, rosicchiando soprattutto i redditi del ceto medio. Senza peraltro avere quei servizi sociali e quel Welfare garantito dai Paesi in cui si pagano più tasse di noi (Francia, Belgio, Austria e Svezia). Il modo in cui uscire da una situazione del genere resta un rebus: altrimenti i Governi ci avrebbero già pensato. Ed è inutile dare colpa all’Europa e ai suoi vincoli di Maastricht: se i criteri di sforamento e di rientro del rapporto debito e deficit in rapporto al Prodotto interno lordo non fossero rispettati, tra inflazione e titoli di Stato spazzatura finiremmo in una situazione tipo Argentina del Duemila.

Einaudi diceva paradossalmente che se tutti pagassero le tasse senza fiatare lo Stato manterrebbe le aliquote comunque alte, e di conseguenza il reato fiscale non è per forza un male se questo aiuta ad abbassare le imposte. Ma questa malattia patologica italiana non ha reso in un secolo le aliquote più ragionevoli. E dunque il rapporto complicato degli italiani con le tasse per forza di cose rimane.

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