Il populismo demone
che agita la sinistra

Un demone si agita nella testa e nella pancia della sinistra: si chiama populismo e non é ben chiaro se sia una sirena, una fata turchina o una vedova nera. Fa riflettere l’arrocco di Repubblica: «Non esiste “il popolo” – ha scritto Michele Serra – esistono le moltitudini di individui che si raggruppano e si dividono, si alleano e si combattono, cambiano vita e cambiano idea. Nessuno, tranne i dittatori e gli imbroglioni, ha il diritto di parlare “in nome del popolo”». A punzecchiare lo storico quotidiano di Eugenio Scalfari – il salotto buono della sinistra benpensante, il giornale-partito che si sente dalla parte giusta della storia – ci pensa un giornale neonato, «La verità», battitore libero nell’ala destrorsa dell’italica informazione.

Veleno nel titolo («Una volta cantava “Avanti o popolo”, adesso la sinistra se ne vergogna») e ironia nel testo: «Il popolo esiste, eccome. Ma la sinistra – scrive Francesco Borgonovo – si interessa a tutti i popoli tranne al proprio. Quelli che arrivano sui barconi, li difende. Ma se il popolo di cui si parla é occidentale o europeo, allora non esiste. Se poi vota Trump o Le Pen, figuriamoci, va cancellato». Analisi un tantino sbrigativa e probabilmente ingiusta, ma ha la forza di un cazzotto in volto. La sinistra si sta interrogando da tempo sul fenomeno, come testimoniano le lucide analisi – tra il molto altro – di Gianfranco Baldini e Christian Raimo, qui richiamate. Peccato, direbbe Crozza, che gli elettori non se ne siano accorti.

Domande. A fronte del dilagare dei populismi di destra (Grillo, Salvini, renzismo) é possibile un’intelligenza di popolo? É possibile costruire un popolo che non annichilisca le domande individuali ma le trasfiguri? Magari evitando l’errore della destra, che si ritiene l’interprete unico del popolo, considerandolo come un monolite, là dove invece è un insieme pluralista? Evidentemente sì. Ma tra il dire e il fare c’é di mezzo il mare.

Le parole di Serra suonano paradossali però in filigrana si legge il complesso del primo della classe. La sinistra ex comunista fatica talvolta a parlare di popolo perché è cresciuta nel mito della classe che aveva ragione a prescindere, essendo dalla parte del Pci. Il risultato è che una certa sinistra tende a fare proprio il paternalismo dei vecchi conservatori, per i quali il popolo aveva bisogno di qualcuno che gli insegnasse a votare. Ed è proprio questo il ruolo che si ritagliano le élites illuminate, e c’è una vicinanza fra tecnocrati e sinistra aristocratica o salmonata.

Il successo del populismo poggia molto, se non tutto, sui leader che lo incarnano cioè lo rendono, appunto, «popolare»: sfruttando in modo più o meno spregiudicato le armi che la politica fornisce. Le traumatiche trasformazioni sociali, culturali, economiche che favoriscono l’emergere delle derive più estreme hanno sempre bisogno di pifferai magici (sia detto senza offesa) che le trasformino in una proposta credibile agli occhi degli elettori.

Tre sono i pilastri su cui poggia il populismo: la crisi delle strutture di intermediazione politica, la personalizzazione del potere, il crescente ruolo dei media nella vita politica. Trump insegna. Il miliardario con la moglie decorativa si é presentato come un outsider (perfino il suo partito non lo voleva) e proprio ostentando la sua estraneità dalla politica é riuscito a dare un vestito politico al risentimento di chi si sente escluso, restituendo voce all’America profonda.

È difficilissimo entrare nella scatola nera dei meccanismi di una macchina emozionale dal successo così clamoroso, servono chiavi di lettura nuove per leggere un mondo nuovo, nuovo nella forma e nella sostanza, perché la crisi delle ideologie si é portata dietro i partiti, i sindacati, ma anche lo stesso impianto dei diritti sociali.

Il mondo è spaccato in due. Da una parte ci sono i precari, il ceto medio impoverito, ma anche i migranti che chiedono diritti e i giovani, soprattutto quelli del Sud socialmente depresso, che si rifiutano di alimentare un’emigrazione anacronistica. Dall’altra parte ci sono coloro che, per dirla in termini sbrigativi, non vogliono condividere le risorse, dispongono di un welfare privato e cercano di garantirsi o mantenere una condizione sociale di privilegio. Tutti quelli, insomma, a cui l’inverno non va mai troppo per le lunghe.

Si citano spesso la cassiera del supermercato e il pony pizza i quali, contrariamente agli operai dell’era industriale, sono messi nell’incapacità di provare una solidarietà di classe. Ma bisognerebbe aggiungere i tantissimi figli di un dio minore che, sfibrati dalla mobilità salariale o sfiniti dalla disoccupazione, faticano a costruirsi un’identità sociale. Nasce (anche) qui la tentazione di compensare queste perdite ricorrendo a un’altra identità, quella nazionale. Più o meno fantomatica, ma rassicurante nelle esclusioni (stranieri, migranti), il minimo comun denominatore di tutti i populismi di destra. È qui che la sinistra deve trovare il bandolo di una matassa planetaria. Qui si gioca il suo futuro. E l’Occidente con lei.

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