La crisi dei partiti
anche in Germania

Il congresso della Spd, convocato in seduta straordinaria, ha votato a maggioranza risicata, 362 sì contro 279 contrari, il proseguimento delle trattative di governo con i cristiano democratici di Angela Merkel. In Europa si registra un sospiro di sollievo. Fallisse la grande coalizione per Bruxelles comincerebbe a suonare la campana a morto. Forse in Italia non si è ben ancora capito. Con la Germania fuori dal giro molti di quelli che gridano all’invadenza tedesca avrebbero a che fare con un continente debole, senza il suo pilastro portante.

Con la propria nazionalità a braccetto ci si può avviare giusto nelle campagne elettorali. Fuori dai confini conta il peso specifico. Se frazionato in 27 Stati diventa impercettibile. La moneta unica senza Berlino non esiste, se non per diventare una delle tante inflazionate in giro per il mondo. L’Europa nella percezione comune degli osservatori politici è quella parte della cartina geografica nella quale è collocata la Germania. Può anche non piacere ma è così. Per questo motivo è fondamentale che sulla Sprea vi sia un governo a vocazione europea. Ed è quello che fortissimamente auspicano socialdemocratici e cristiano democratici. Il collante che li tiene uniti è l’istinto di sopravvivenza. Un ritorno alle urne segnerebbe il successo dei liberali euroscettici di Christian Lindner e dei conservatori con forti coloriture nazionaliste. Con il fatale declino di Spd e Cdu, cioè dei partiti fondatori della moderna Repubblica Federale, anche l’Europa perderebbe il suo punto di riferimento. Macron funziona solo se ha una Germania forte al suo fianco. Da solo può solo vaneggiare della grandeur francese.

Ai delegati della Spd di una Germania europea, come premessa per una politica di integrazione in Europa, non importa più che tanto. Al discorso di Martin Schulz hanno riservato applausi a decibel percepibili solo con l’amplificatore. A loro interessano cose che riguardano la socialdemocrazia: restrizioni dei contratti a termine per la platea sterminata dei mini-jobs e dei precari, oppure l’eliminazione della sanità a due classi, quella pubblica dei meno abbienti e quella degli assicurati privati per lo più funzionari statali. Ma è l’ottica dell’egualitarismo socialista. Esattamente quello che farebbe perdere milioni di voti alla Cdu, il partito per eccellenza della burocrazia statale. Aver lasciato sul campo più dell’8% alle ultime elezioni di settembre è un macigno che pesa sulle spalle di Angela Merkel. Vi è un chiaro spostamento a destra dell’elettorato tedesco. E anche molti voti andati alla Cdu/Csu sono a rischio.

La percezione della fine di un ciclo è confermata dai sondaggi. La maggioranza dei cittadini gradirebbe un’altra coalizione di governo. Opta per una continuazione delle vecchie alleanze solo per non andare di nuovo a votare. Lo conferma anche il teatrino delle consultazioni di base. Gli accordi finali per la formazione del governo dovranno essere sottoposti al giudizio dei 450 mila iscritti alla Spd. Come ultimo passaggio ad una grande coalizione che di grande, inteso come ridondante e stucchevole, ha appunto solo la bizantina conduzione delle trattative. Del resto questa è la prova provata che la classe dirigente del partito è così insicura da dover chiedere ad ogni passo la legittimazione politica. Parrebbe democrazia ma di fatto è impotenza. Ed è questo il timore di molti. Una guida politica che perde autorevolezza e ascolto esprime la crisi dei grandi partiti di massa. In Germania il processo è stato molto più lento che nel resto d’Europa ma con il declino della leadership di Angela Merkel anche qui diventa di immediata percezione.

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