L’inflazione danneggia
i redditi bassi

Toh, chi si rivede, l’inflazione, la grande assente del dibattito economico degli ultimi quindici anni. Ieri in Italia ha battuto a sorpresa un colpo segnando l’1,8 per cento su base annua, rispetto all’1,4 del marzo scorso. Il livello più alto dagli ultimi quattro anni. Che significato dare a questa improvvisa fiammata? L’aumento dei beni e dei servizi è generalmente una iattura, soprattutto nei confronti dei redditi medio-bassi. Einaudi ricordava che l’inflazione è una sorta di tassa aggiuntiva per i meno abbienti, che soffrono molto di più l’aumento dei prezzi rispetto alle classi agiate.

L’inflazione intacca il potere d’acquisto di chi è già in difficoltà. Weimer, l’Argentina, il Brasile: ci sono periodi storici a ricordarci a futura memoria quanto le iperinflazioni siano state foriere di carestie, drammi sociali e addirittura guerre mondiali. Tuttavia un’inflazione limitata è generalmente accettata dagli economisti, perché significa che vi è un aumento dei redditi, della domanda, della produzione e in ultima istanza dei posti di lavoro, secondo il circolo virtuoso classico. La Banca Centrale Europea nel suo statuto indica nel due per cento la percentuale ideale di inflazione «buona», un po’ come il bicchiere di vino rosso quotidiano nel sangue che raccomandano tutti i dietologi. Alcuni economisti si spingono fino al 4 per cento.

Nel nostro caso però, quest’impennata non dipende da un aumento della domanda (il classico «carrello della spesa» fatto di alimentari, cura della casa e della persona) ma da un’accelerazione dei costi dell’energia elettrica, del gas e dei trasporti. Nulla di buono, almeno apparentemente, solo qualcosa che incide soprattutto sui redditi bassi, come abbiamo detto: le associazioni dei consumatori calcolano una spesa aggiuntiva di 533 euro a famiglia.

L’aumento dell’inflazione (che ha portato anche a un apprezzamento dell’euro rispetto al dollaro) non è solo un fenomeno nazionale: anche in Europa c’è stata una piccola fiammata. Sufficiente a mettere in difficoltà il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi nei confronti di alcuni membri del direttorio (soprattutto di influenza tedesca) che vorrebbero rialzare i tassi (vale a dire il costo del denaro) e mettere fine al suo piano di Quantitative Easing. Quest’ultimo in pratica è costituito dall’immissione di moneta nel sistema finanziario europeo per favorire l’accesso ai mutui e ai prestiti favorendo gli investimenti. L’aumento di moneta infatti è considerata un’altra causa dell’inflazione. Draghi ha detto più volte che la crescita moderata cui stiamo assistendo ha ancora bisogno di tenere i rubinetti aperti e che l’inflazione, peraltro nei limiti, non fermerà questo processo. Le misure di sostegno monetario straordinarie continueranno. I tassi saranno bassi ancora a lungo (con conseguenze nei mutui). Tra l’altro molti economisti moderni tendono a svincolare l’aumento dei prezzi dall’aumento della domanda (come teorizzava Keynes) per ragioni che rientrano sostanzialmente nel nuovo ordine economico imposto dalla globalizzazione e dal ribasso del petrolio grazie alle nuove tecniche di estrazione da parte degli Stati Uniti, come il fracking. Forse l’iperinflazione a due cifre non tornerà più (e nessuno la rimpiange, a parte i bot people). Draghi comunque sembra determinato ad andare avanti col suo «bazooka» a dispetto dei tedeschi.

Un’ultima postilla: l’inflazione favorisce i debitori a scapito dei creditori. Se guardiamo al nostro debito pubblico questa è una buona notizia. Anche per questo il ministro dell’Economia Padoan preferirebbe scaldare i prezzi con l’aumento dell’Iva anziché incidere sul costo del lavoro o imporre altre tasse. Ma a lungo andare l’operazione Iva finirebbe per deprimere i consumi. Perché in fondo la morale è una sola: o si accelera con la ripresa della produzione o non si va da nessuna parte, inflazione o non inflazione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA