Miliardario giacobino
Trump anti-politico

Un miliardario che parla come un teppista e pensa come un giacobino. Pifferaio magico in bilico tra cinismo e paura, intercetta la collera suscitata dalle disuguaglianze sociali, i salari bassi, la paura di nuove crisi economiche in un mondo dominato da banche, multinazionali, finanza. Donald Trump è il nuovo presidente degli Stati Uniti perché nessuno come lui sa parlare al cuore sordo della gente. La sua è una saggezza stradaiola che trova diritto di cittadinanza nelle periferie indomabili, il ventre molle della globalizzazione dove albergano sentimenti fuori taglia, fuori catalogo, fuori norma, distanti anni luce da quella perfettina di Hillary, di sinistra ma solo sulla carta, percepita come l’alleata di Wall Street.

Per mesi abbiamo assistito a una campagna elettorale caotica e violenta, segnata dall’assenza di un vero dibattito e dominata da un candidato iconoclasta che prendeva a sportellate i rivali e che ha sempre dato la sensazione di essere poco preparato ad esercitare le responsabilità che lo attendevano. Entrambi segni inequivocabili di una crisi politica profonda, e che traducono lo smarrimento di un popolo orfano di antiche rotte di libertà.

Su queste colonne lo sosteniamo da tempo: quella in cui è sprofondata l’America (non solo l’America) è una crisi sociale, prima che politica. E la politica, almeno come la intendiamo nel significato più classico, non ha più gli strumenti per affrontarla. Disorientata, minata nelle sue certezze più profonde, la patria di Roosevelt, Kennedy e Martin Luther King ha perso fiducia nei corpi intermedi e nelle istituzioni del Paese. Le istituzioni che dovrebbero incarnare questa fiducia (il Congresso, la giustizia, l’educazione, la polizia) e che formano lo zoccolo duro di quella democrazia sono nella tormenta. La polizia è accusata di uccidere giovani afroamericani che non possono difendersi, ai giudici viene rinfacciato di esercitare una giustizia classista, alla scuola si rimprovera di riprodurre le disuguaglianza di una società crudele nella sua imperfezione e il Congresso appare un freno, invece che un elemento propulsivo.

Ora, è proprio sul tema delle disuguaglianze che Trump (magistrale nella capacità di farsi percepire come candidato anti-sistema) ha costruito il suo successo. Non per le soluzioni che proponeva, una più demagogica dell’altra, ma perché ha tolto il velo alla faccia sporca della globalizzazione, in particolare gli effetti devastanti scatenati sul mondo operaio Usa. Anti-politico nel dna, si è mangiato politici di mestiere grazie a un istinto formidabile: diabolicamente, ha sconfitto prima il suo stesso partito e poi ha sbaragliato i dem facendosi passare come l’uomo nuovo che non appartiene al consueto «serraglio».

Per quanto paradossale possa sembrare, è stato il candidato miliardario dal fare sbrigativo, se non ruvido, tipico degli imprenditori ed estraneo ai politici, l’unico a battere i pugni sul tavolo: attirando a sé gli americani più fragili, quelli meno scolarizzati, gli scarti della società post industriale, insomma quelli che sanno davvero di cosa si parla, quando si parla di povertà, come dimostrano i loro timori fradici, i vestiti avviliti, le tristezze che sgocciolano nelle strade. Con precisione chirurgica, Trump ha evocato regolarmente i non laureati e i non diplomati, quando – come tutti sanno – l’elettorato di Hillary era scolasticamente qualificato e multiculturale.

La sua lunga marcia verso la Casa Bianca è iniziata parecchi mesi fa. Milioni di americani hanno avuto tutto il tempo di pensarci. Perché hanno scelto, tra decine di candidati, il più grottesco, il più volgare, il più impresentabile? Perché erano arrabbiati. La collera, figlia della disillusione, è il sentimento di chi si sente escluso, di chi pensa che lo Stato non faccia abbastanza per te.

Ed è stata la colonna di fondo, il basso continuo – strane accordature, tendenzialmente scordate – di tutta la campagna elettorale. Qualche cifra, per dare una polaroid della situazione. Il 35 per cento degli addetti all’industria statunitense ha iniziato a sparire nei primi anni Ottanta. Oggi 43 milioni di americani vivono con sussidi statali di tipo alimentare. Un altro segno invisibile, che sfugge ai radar dei politologi e ancor più ai sondaggisti: sempre più quarantenni e cinquantenni scelgono di diventare affittuari, quando l’accesso alla proprietà era lo zoccolo duro della società Usa, uno dei segni tangibili della riuscita del sogno americano.

Fateci caso. Nella maggior parte dei film di Clint Eastwood (sostenitore di Trump), il regista sceglie personaggi a medio-alta scolarizzazione per incarnare il cattivo, nostalgico di quell’America degli anni Cinquanta dove la mancanza di diploma non era un ostacolo insuperabile per salire la scala sociale. Bill Gates e Mark Zuckerberg (supporter di Hillary) testimoniano un’America uscita da un master, laurea con lode e curriculum da urlo…

Che dire di Hillary? Una donna che vive da 24 anni sotto scorta dei servizi segreti, che era alla sua quattordicesima campagna elettorale (contando quelle di Bill) e che da 14 anni senza interruzione (venti in totale) è la «donna americana più ammirata», secondo i sondaggi Gallup. Davvero l’America profonda poteva riconoscersi in lei? Lei, l’alleato di Wall Street che prende 375 mila dollari per tre discorsi organizzati da Goldman Sachs, l’ex Segretario di Stato che si comporta come la regina d’Inghilterra e fattura 300 mila dollari per un discorso di mezz’ora all’università di Los Angeles?

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