Profughi, Europa
e sensi di colpa

Immaginiamo che al posto della Gran Bretagna (quella dei giorni scorsi: oggi sta cambiando) a sostenere le posizioni di chiusura verso i rifugiati ci fosse stata la Germania. Non sarebbe durata un giorno e il mondo intero le avrebbe rinfacciato il passato razzista. La Repubblica ceca ha cercato di gestire l’emergenza profughi timbrando un numero sul braccio dei richiedenti asilo. Una pratica spiccia che però ricorda i campi di concentramento nazisti. Il governo di Praga ha dovuto subito spiegare: non volevamo che i bambini perdessero il contatto con la loro mamma.

Adesso a scanso di equivoci ricevono una fascetta con il numero progressivo, come quando si vanno a fare gli esami del sangue. L’Europa ha molto da farsi perdonare e il ricordo dei suoi passati razzisti la perseguita. Non parliamo solo della Germania, ma della Francia che nella persecuzione degli ebrei anche da Paese occupato dai nazisti non si è mai tirata indietro, compresa l’Italia che nel 1938 ha adottato le leggi razziali. L’ha fatto ad imitazione dell’alleato germanico, ma l’ha fatto. Un problema che la Gran Bretagna non ha e che le ha permesso di assumere il ruolo di bastian contrari, a conferma che la sua diversità è un dato di fatto. Anche gli inglesi hanno i loro scheletri negli armadi, basti pensare alla grande carestia irlandese del 1845 con un milione di morti e un milione e 750 mila emigrati . In quella situazione il governo inglese non fece nulla e lasciò che la peronospera della patata facesse il suo lavoro e lasciasse il popolo irlandese senza cibo.

Gli inglesi sono sottili, non fanno campi di concentramento, lasciano che la natura faccia il suo corso e di fronte al mondo possono dichiarare che non è colpa loro. Con la fedina ripulita adesso impartiscono lezioni al continente e annunciano che accoglieranno migliaia di rifugiati siriani direttamente dai campi profughi in Giordania. Una disinvoltura che gli europei, tutti presi dai loro sensi di colpa, non possono avere. Gli arrivi dei migranti pongono problemi organizzativi più che più ideologici. La questione di fondo è saper distinguere fra chi è effettivamente un richiedente asilo perché proviene da aree di guerra o da regimi dittatoriali particolarmente efferati, e chi invece cerca l’Europa del benessere. Dire di no a chi vuole lasciare fame e miseria alle spalle è difficile per chi ha un passato coloniale da farsi perdonare e per chi deve convincere il prossimo che non è più razzista.

Da qui i tentennamenti di tutti questi mesi, quando l’Italia è stata lasciata sola a gestire un’emergenza che in ragione dei suoi numeri andava affrontata in modo solidale da tutti i Paesi europei. La difficoltà principale è la procedura di identificazione. In Italia ci si impiega un anno e mezzo, in Germania un anno. Tempo e soldi buttati, perché la Svizzera nello spazio di un mese definisce l’identità e la provenienza. L’approccio è distinguere subito coloro che possono provenire da Paesi che non sono in crisi emergenziale. E si va per esclusione: siriani, afgani, iracheni, libici sono in prima linea in quanto a diritto d’asilo e si lasciano per ultimi. Mentre si affrontano subito i casi dubbi, perché così si può procedere immediatamente al rimpatrio quando risulti chiaro che il Paese di provenienza non è in stato di crisi.

Avere una procedura veloce in tutti i 28 Paesi dell’Unione sarebbe un passo avanti perché è evidente che l’Europa non può accogliere tutti. L’accoglienza indiscriminata spaventa e crea divisioni soprattutto a Est. La Repubblica Ceca ha accolto negli ultimi anni 150 mila ucraini che si sono inseriti nel mondo del lavoro con successo. Ma sono slavi e bianchi, e per chi tiene alla propria tradizione questo conta ancora.

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