Spirale di violenza
Un rischio concreto

«È già cambiato il modo in cui la gente guarda me e il mio velo». In questa ammissione di Claire Cheou, reporter musulmana di «Le Monde», sta uno dei problemi più angosciosi creati dalla strage dei redattori di Charlie Hebdo: la frattura sempre più accentuata tra noi europei e le comunità islamiche che vivono tra noi. I cittadini leggono le condanne del massacro de parte degli imam, la dissociazione dal crimine di tutti i più noti esponenti musulmani d’Europa e ascoltano le loro parole rassicuranti in tivù.

Ma non tutti si fidano della loro sincerità, o almeno non si fidano del tutto, perché contemporaneamente leggono sui social network post di giubilo per l’eccidio di Parigi, costatano che nell’universo islamico molti hanno giustificato l’azione dei fratelli Kouachi e hanno sempre presente che per il Corano noi siamo degli infedeli, da convertire e integrare (come predice che avverrà Houellebecq nel suo nuovo controverso romanzo) oppure da combattere e uccidere.

Tutti si rendono conto che gli jihadisti sono per ora solo una frazione relativamente modesta del mondo islamico, ma temono che questa minoranza fanatica, aiutata anche dalla emarginazione e dalle frustrazioni sociali dei suoi correligionari, finisca con l’imporsi sugli altri che oggi non condividono, ma neppure si oppongono al terrorismo: un po’ come il nocciolo duro dei nazisti riuscì in pochi anni a conquistare l’intera Germania, o perlomeno a trascinarla con sé sulla strada della violenza.

A seguito della strage, e dalla ormai evidente inefficienza dei servizi di sicurezza francesi sia nel prevenirla, sia nel catturare gli assassini, una fetta crescente di europei si sente indifesa, minacciata sia sul piano fisico sia su quello culturale. La recente, impressionante successione di attentati di matrice islamica, ad opera sia delle cosiddette «microstrutture» costituite dai jihadisti di ritorno sia dai «lupi solitari» indottrinati da Internet, in Paesi che vanno dalla Francia all’Australia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, induce la gente a credere di trovarsi davanti a una vera e propria dichiarazione di guerra.

Torna di moda (anche in TV) il detto «Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici». Se lo scopo dei terroristi è anche di seminare odio e intolleranza, rendendo difficile una convivenza basata su rispetto reciproco e legalità, vicende come quelle che, in queste ore, stanno sconvolgendo la Francia sono di micidiale efficacia. Di qui, la reazione: senza arrivare all’estremismo di Marine Le Pen, che ha chiesto il ritorno della pena di morte, è forte ovunque la richiesta di nuove leggi antiterrorismo (e il governo italiano è già all’opera), mentre cresce l’opposizione alla costruzione di nuove moschee e sta nascendo – perfino nella tollerantissima Svezia - un poderoso fronte anti-immigrazione, che non fa distinzione tra rifugiati politici e profughi economici e non tiene neppure conto che una parte dei boat people, specie siriani ed eritrei, sono proprio cristiani che fuggono da un mondo islamico che li discrimina e li opprime.

A giudicare soprattutto dai commenti che si leggono in rete, c’è sempre meno fiducia che il dialogo sia in grado di risolvere i problemi, cioè le profonde differenze tra le due civiltà – specie in materia di separazione tra religione e politica - che spianano la strada agli estremisti. Questa mancanza di fiducia si estende sia ai nostri politici , sia ai leader della comunità islamica europea che ora si associano alla condanna della violenza. Se non riusciremo a fermare questa deriva, lo «scontro di civiltà» teorizzato già nel secolo scorso da Huntington rischia di assumere caratteri sempre più violenti.

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