Trionfo di Macron
Vittoria per l’Europa

«Quando voglio sapere cosa pensa la Francia, lo chiedo a me stesso», diceva Charles De Gaulle. Ieri Emmanuel Macron lo ha chiesto ai francesi e la sua vittoria alle elezioni presidenziali è un segnale positivo che supera i confini nazionali, mai così liquidi come in questi anni di migrazioni e globalizzazione. Una buona notizia soprattutto in chiave europea, perché ormai ogni volta che si va alle urne nel Vecchio Continente il voto si trasforma in un referendum pro o contro l’Unione, e l’avanzata della marea populista – già intronizzata in Ungheria e Polonia – avrebbe reso più complicato il cammino comune.

Un’immagine che vale più di mille discorsi: Macron ha fatto sventolare il vessillo europeo in tutti i suoi comizi, Marine Le Pen ha chiesto di ritirarlo ovunque. Anche per questo il ballottaggio di ieri ha finito per diventare la risposta al voto del 2005 sulla Costituzione europea, in cui avevano vinto i No con il 55 per cento. Gran parte del mondo (sicuramente i mercati finanziari) guardava con apprensione alle urne francesi e le prime parole di Macron («Ritroviamo la speranza») rendono bene l’idea di un sentimento condiviso, e non solo nei palazzi di governo.

Grande festa ieri sera al Louvre per l’enfant prodige della politica, l’alieno liberale che a soli 39 anni ha preso in contropiede destra e sinistra coagulando intorno a sé l’argine contro l’avanzata dell’estrema destra. Ma al di là del risultato finale, merita una riflessione il fatto che il Front National abbia raccolto il 35 per cento dei consensi. Tanto più che in Francia, alle elezioni presidenziali, la formula del ballottaggio è architettata per favorire la governabilità: al secondo turno scende in campo il «voto utile», cioè la scelta del candidato meno peggio, visto che il proprio è stato silurato. Quest’anno i socialisti (orfani di Benoît Hamon) e i neo gollisti (orfani di François Fillon) hanno subito indirizzato i loro elettori verso Macron, solo Jean-Luc Mélénchon (il Bertinotti di Francia) è rimasto sulle sue, tiepidissimo, ma per esclusive ragioni tattiche: spera, alle legislative di giugno, di incassare i dividendi della sconfitta socialista di quindici giorni fa.

Qualcuno in Francia, fin da ieri pomeriggio, cominciava a chiedersi se davvero ci si possa accontentare di un risultato come questo, e non ci si debba invece interrogare sulle ragioni profonde per cui il Front National arriva al 35 per cento nel Paese dell’Illuminismo e dei Diritti dell’Uomo. Gli analisti ormai concordano che alla base di tutto c’è una miscela esplosiva, in cui i morsi della crisi economica s’incrociano con la rivoluzione che ha stravolto il mondo del lavoro, e di conseguenza il sistema di assistenza e protezione sociale. La riduzione del potere d’acquisto dei salari colpisce tutti, il ceto medio è stato ferito a morte. La riconversione della grande industria, che fino a trent’anni fa era un potente magnete che orientava la migrazione interna, non è andata come si sperava, il precariato è diventato la regola.

Libération, il quotidiano simbolo della sinistra francese, ha messo il dito nella piaga coniando un neologismo molto efficace, «l’antifascismo del ballottaggio». E in un editoriale si chiede: «È sufficiente fare fronte comune ogni cinque anni contro Marine Le Pen gridando al lupo al lupo? Continuando così si rischia di combattere solo l’effetto, dimenticandosi la causa del male. Senza lo sforzo di comprensione dei malesseri profondi della società contemporanea, si rischia di ritrovarsi ogni cinque anni a giocarsi la stessa carta», sempre più usurata dal tempo, sempre meno efficace.

Ma la giornata di ieri ci rimanda anche un’altra sollecitazione. Il tasso di astensionismo è stato molto elevato, quasi un record. È evidente che la politica, in Francia (ma riguarda tutti), dovrà fare uno sforzo per riconciliarsi con i francesi. L’impressione è che l’ultima campagna elettorale abbia scavato ancora più in profondità nel fossato che separa i cittadini dalle istituzioni e dai loro rappresentanti. Le Monde ha tirato fuori dall’archivio un’inchiesta realizzata nell’autunno dell’anno scorso dall’Istituto Montaigne e da Sciences-Po, la prestigiosa università di Scienze Politiche. Il 57 per cento delle persone interpellate (percentuale che arriva al 78 per cento nel caso dei simpatizzanti del Front National e al 66 per quelli di sinistra) pensava che il «sistema democratico» funzionava male, sempre più male: una percentuale di scontento superiore di 14 punti a quella registrata nel febbraio del 2014. C’è ancora molto da lavorare.

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