Pantani, dieci anni dopo
La mamma: voglio la verità

I tifosi hanno nostalgia del campione, del ciclista, a lei manca il figlio. È il 14 febbraio, sono passati 10 anni da quando il suo «piccolo» Marco chiuse per sempre le ali e lei, Tonina Pantani, aspetta ancora risposte concrete, certe.

I tifosi hanno nostalgia del campione, del ciclista, a lei manca il figlio. È il 14 febbraio, sono passati 10 anni da quando il suo «piccolo» Marco chiuse per sempre le ali e lei, Tonina Pantani, aspetta ancora risposte concrete, certe.

«Marco non tornerà mai, ma io aspetto ancora la verità, su Rimini (dove il “Pirata” venne trovato morto, ndr) come su Madonna di Campiglio», dice all’Ansa. Mamma Tonina ha chiesto più volte che l’inchiesta sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998 venga riaperta, perché restano ancora tanti punti da chiarire.

«Ho letto i faldoni - osserva -, Marco non era da solo, quella sera del 14 febbraio 2004, nel residence di Rimini dove è stato trovato morto con lui potevano esserci più persone. Chiamò i carabinieri, parlando di persone che gli davano fastidio e, dopo un’ora, fu trovato morto».

C’è anche la strana storia dei giubbotti «lasciati a Milano e ritrovati nel residence ’Le Rosè, dove si era recato senza bagaglio». Chi li ha portati a Rimini? Questo, assieme a molti altri indizi, resta un mistero. «Il mio dubbio più grande è che Marco possa essere stato ucciso», ammette Tonina Pantani, attualmente assistita dall’avvocato Antonio De Rensis.

Dopo 10 anni, le domande restano le stesse e vanno di pari passo con i sentimenti, i ricordi, il dolore, con il quale Tonina ha imparato a convivere. È affranta, delusa, amareggiata e prova un po’ di sollievo solo quando parla del suo Marco, delle sue imprese, dei trionfi, delle scalate. Andava più forte in salita, «perché così abbrevio la mia sofferenza», amava ripetere. «Era il numero 1, è stato un atleta irripetibile, un ragazzo buono, coraggioso - ricorda Tonina -: avrebbe dovuto mandare a quel paese tutti quanti, soprattutto chi gli diceva di non vincere. Il doping? È sempre esistito, però Marco non lo ha mai preso. E poi, sai che soddisfazione: vincere sapendo di avere barato. Non era da Marco. Lui, per il ciclismo e per lo sport in generale, ha rappresentato tantissimo. Tutt’ora tanti bambini vanno a salutarlo al cimitero, lasciano disegnini per lui, lo ritraggono mentre pedala fra due ali di folla, in mezzo alle cime innevate. Questo è già di per sè bellissimo».

C’è una data nella vita di Marco che non può essere cancellata: il 5 giugno 1999, mentre si apprestava a vincere il suo secondo Giro d’Italia consecutivo, venne fermato a Madonna di Campiglio, perché il livello del suo ematocrito aveva toccato 51.9, oltre il massimo consentito di 50. Secondo mamma Pantani, in quel rilevamento dell’Unione ciclistica internazionale, ci sarebbe stato un vizio di forma. Tonina ha parlato di un «controllo fuori controllo».

Se Rimini è stata l’ultima tappa di una vita breve ma intensissima, Campiglio è stata la prima di un calvario costellato da troppi lati oscuri. «Su quel giorno mi sono rimasti dentro tanti dubbi - è il pensiero di Tonina Pantani -: giorni prima, in maglia rosa, a Marco era stato rilevato un tasso di ematocrito pari a 46.0. Come ha fatto in pochi giorni a salire? È tutto molto poco chiaro. Strano. Il mio Marco è sempre stato dolce, sereno, allegro, andava pazzo per i bambini. Ha sempre rispettato le regole. Mi diceva: “Fai la brava che io devo badare a te quando sarai vecchia”. Invece... Se n’è andato».

Le recenti dichiarazioni di Danilo Di Luca («per arrivare fra i primi 10, al Giro devi per forza assumere l’Epo...») hanno lasciato il segno nell’anima della mite Tonina e fatto breccia nel suo cuore di mamma ferita. «Sono molto arrabbiata con lui, non mi piace la gente che spara nel mucchio - afferma -. Faccia i nomi davanti ai magistrati, se sa qualcosa. Per questo voglio incontrarlo, parlargli».

Mamma Pantani non si dà pace, perché «prima di morire» vuole dimostrare la verità, tuttavia ribadisce che il suo «Marco si è battuto contro il doping». «Cosa gli direi se potessi incontrarlo? Io gli parlo ogni giorno, avverto sempre la sua presenza al mio fianco», conclude. Ma solo a parole, perché il «Pirata» è volato via. Il capitolo della morte di uno dei campioni più controversi e amati della storia resta come un romanzo senza epilogo, i cui capitoli più interessanti devono ancora essere scritti. O forse no.

Adolfo Fantaccini

© RIPRODUZIONE RISERVATA